
Lima, Perù, 10/02/23
“Dina asesina, el pueblo te repudia”
Il cartello, un semplice foglio di carta appeso a una serranda abbassata del mercato Bellavista di Puno, Perù, ha l’eco dei cori di protesta che ogni giorno si sentono per le strade della capitale, a più di mille chilometri da qui. Le montagne e il lago Titicaca circondano la città di frontiera in una fortezza incontaminata e isolata; Lima invece, la cui costa si affaccia sull’internazionalità commerciale, dà le spalle al resto del Paese.
Questo non è l’unico venditore che ha scelto di chiudere, né l’unico che si aggrappa a uno dei tanti slogan che, da ormai diversi mesi, inondano le strade e i canali televisivi: “Dina renuncia ya!”, “Cierre el Congresso golpista”, “Asamblea Constituyente ya”…
D’altra parte Puno è una città proletaria a pochi chilometri da Juliaca, teatro di un massacro da 17 morti da parte della polizia e uno degli epicentri delle proteste. Il “Contrabando” in particolare, la zona chiusa e labirintica del mercato, rappresenta un punto focale nella coordinazione e nell’organizzazione dal basso degli scioperi e delle manifestazioni. Tra i suoi vicoli si mette in scena quotidianamente un susseguirsi di assemblee spontanee, in cui si coordina il malcontento cittadino. Ogni settimana dal 7 dicembre, quando il presidente Castillo è stato deposto con una manovra politica e la vicepresidente Boluarte si è insediata al suo posto, i contadini delle campagne circostanti rinunciano agli introiti della vendita di patate, cereali, spezie e ogni altro regalo della Pachamama, come i nativi chiamano la Madre Terra, per scendere in piazza.
Qui, i collettivi del mercato si uniscono ai lavoratori del settore dei trasporti, impegnati in una lotta senza tregua per bloccare strade e rifornimenti in tutto il Paese, nel tentativo di far collassare l’economia peruviana. I bus e i camion che spostano sia le merci che l’inquieta popolazione sono costretti a percorrere strade malmesse, piene di croci dei caduti, a lato di dirupi e sottoposte continuamente alle frane nella stagione delle piogge.
Partecipano anche gli insegnanti, dalla primaria all’università, il cui sciopero è stato incoraggiato dalle vacanze estive, ma ha avuto un impatto decisivo con il ritorno a scuola a marzo, quando la loro assenza ha causato ripercussioni sulle famiglie e pressioni sullo Stato. Non mancano gli studenti, pronti a lottare per un distacco definitivo dal pesante passato coloniale che il Paese ancora si porta dietro in diverse forme. Il ricordo della rivoluzione tentata dal leader nativo Tupac Amaru II e la sordità della storia nei confronti del popolo peruviano, più volte insorto prima contro gli spagnoli e poi contro la classe dirigente del Paese stesso, non sono altro che un mucchio di ceneri ardenti su cui basta soffiare.
Nelle città più grandi, come Lima, non mancano nemmeno i sindacati dei lavoratori, riuniti per la maggior parte sotto la CGTP (Confederación General de Trabajadores del Perú). I minatori e gli operai portano avanti le proprie battaglie uniti, ciascuno sotto i suoi simboli ma dividendosi le posizioni e la visibilità nei cortei, alternandosi in una prima linea costante che separi la popolazione dagli assalti della polizia.
La “Città dei Viceré” è infatti dove si stanno concentrando le proteste, con delegazioni e ondate di persone che arrivano con ogni mezzo dalle zone rurali. Gli snodi cruciali della viabilità cittadina, come Plaza 2 Mayo, ospitano striscioni e bandiere quasi quotidianamente, mentre gli imponenti viali del centro sono invasi da cortei oceanici, che sfidano uno schieramento di forze armate impressionante, al punto da ricordare le dimostrazioni di forza delle parate novecentesche. La piazza di Lima dove si affacciano importanti edifici storici che ora sono palazzi del potere, tra cui quello presidenziale, è chiusa persino ai turisti, per precauzione. In altre zone del centro è venuto meno il diritto di manifestare; in tutta la città si aggirano gruppi di poliziotti armati fino ai denti, nei luoghi di maggior interesse sono appostati con gli scudi antisommossa, e di fronte al Congresso c’è una guarnigione permanente: file e file di militari e forze dell’ordine. Se si notano i segnali è chiaro che l’atmosfera è pesante, dietro la facciata trendy e all’avanguardia che Lima cerca di mantenere (e di assumere), guardando con invidia alle metropoli occidentali.
Così come è cambiata visibilmente l’aria per le strade di Puno: il comando di polizia, nella Plaza de Armas, si è trincerato con due tank e una barriera di sacchi davanti all’entrata, costantemente sorvegliata. Le strade sono mezze vuote, in parte per la forte mobilitazione verso la “Toma de Lima”, l’assedio della capitale, in parte forse per timore delle ritorsioni mirate su chi protesta. In fondo, delle sessanta morti causate dalla polizia dall’inizio della rivolta, venti sono avvenute in questa regione, la più colpita finora.
È evidente che non si tratta di una situazione normale, bensì di un conflitto sociale lacerante, con una costanza e una tenacia incredibile da parte della popolazione da un lato e un’escalation di violenza e soppressione da parte delle istituzioni dall’altro. Un conflitto che sta sconquassando il Perù da cima a fondo, malgrado i cittadini ne parlino con riserbo e quasi con imbarazzo agli stranieri, definendolo con perifrasi come “quello che sta passando il Paese” o “i problemi recenti”. Cosa spinge la gente a rischiare la vita ogni giorno da mesi, in un’esperienza così inverosimile?
Le ragioni vanno ben oltre l’attualità politica, sono di tipo economico e storico. Certo, Castillo era un presidente vicino agli interessi dei nativi, degli abitanti delle zone più periferiche e rurali, e la sua deposizione non è stata gradita, così come il cambio di registro della sua sostituta. Boluarte promise a suo tempo, proprio qui nella città di Puno, che se Castillo fosse caduto, lei sarebbe caduta con lui. Così non è stato, e la presidente non eletta si è dimostrata non solo attaccata al potere e con un indirizzo politico più destrorso del suo predecessore, ma anche incredibilmente crudele nei confronti di quello stesso popolo che ha giurato di proteggere.
Visitando l’Università San Marcos a Lima, ci si può rendere conto di ciò. Il campus è stato occupato e in seguito sgomberato con un carro armato le cui foto hanno fatto il giro della rete: la parete abbattuta e ricostruita deve ancora essere intonacata, diventando così una specie di monumento della memoria. Una volta superati i cancelli, gli studenti sono restii a parlare di quello che è successo, in parte per prudenza e in parte per rispetto verso le vittime. Durante lo sgombero, i poliziotti sono entrati nelle abitazioni private di quelli che vivevano nel campus, ribaltando le camere da cima a fondo. Hanno manganellato indiscriminatamente gli studenti, hanno messo tutti al muro con le armi puntate, hanno gettato i loro beni dalle finestre, hanno sequestrato computer, telefoni e dispositivi elettronici, col pretesto di analizzarli. Hanno pescato chissà dove una lista che subiva le pecche della burocrazia universitaria: chi per errore non vi era presente, non aveva diritto ad abitare lì ed è stato trascinato brutalmente fino all’uscita e arrestato senza altro movente. Girano diverse voci di abusi e molestie di alcune ragazze trattenute, le cui parti intime portavano i segni, ma è ancora tutto troppo recente e la censura opera pesantemente, soprattutto riguardo alle accuse di tortura. Come si è arrivati a questo?
I politologi denunciano una falla negli ingranaggi della democrazia del Paese: il Congresso, non sempre allineato col governo in carica, può destituire costituzionalmente il presidente per “incapacità morale”: una mossa che è stata usata fin troppo a sproposito negli ultimi anni, e che contro Castillo era già stata tentata tre volte, paralizzando di fatto la sua capacità di amministrare il Paese sotto una spada di Damocle. Il presidente ha quindi cercato di sciogliere il Congresso per riformare la Costituzione, senza riuscirci; è stato deposto e la sua vice, Dina Boluarte, l’ha sostituito. Ma è chiaro che la situazione attuale non può essere figlia solo del risentimento degli elettori sconfitti, né della sfiducia nella classe politica, né dei sospetti di intromissione di potenze straniere nel processo democratico (in particolare, non sarebbe la prima volta che i “gringos” degli USA fanno cadere un governo socialista o di sinistra e mettono una marionetta al suo posto. C’è a tal proposito un incontro di Boluarte con l’ambasciatrice statunitense il giorno prima del golpe, il quale è tanto ignorato quanto significativo).
Il motivo per cui né Boluarte né i parlamentari sono disposti a lasciare la poltrona è il rinnovo imminente di alcuni contratti economici internazionali, attraverso cui le élite corrotte del Paese garantiscono la svendita di materie prime, di cui il Perù è ricchissimo, ai capitali stranieri. Qualsiasi persona che si consulti, dalla studentessa istruita al contadino nativo, denunciano la corruzione come il problema per eccellenza. La classe politica, così come la Costituzione fujimorista che i manifestanti vogliono cambiare, garantisce che i giacimenti di oro, argento, litio, rame, piombo, zinco, ferro e via dicendo vengano sfruttati e i loro frutti esportati ai Paesi industrializzati, rendendo il proprio, di fatto, una grande miniera a cielo aperto al servizio di altri. Il vero profitto è generato laddove queste materie prime vengono raffinate, lavorate e vendute sul mercato. La rotta più comune è in direzione della Germania e dei suoi laboratori specializzati, o altrimenti gli Stati Uniti. Il Perù possiede grandi riserve di gas naturale e petrolio, ma il prezzo della benzina è tra i più alti del continente; a Cuzco, dopo una certa ora, in alcuni alloggiamenti è vietato cucinare o usare l’acqua calda, per risparmiare. Eppure, i gasdotti che arrivano fin negli Stati Uniti partono proprio da lì.
Un ragazzo dell’università di Puno mi spiega che non tutte le zone subiscono questa dinamica imperialista allo stesso modo: le risorse del Paese sono concentrate nell’Est e nel Sud, andini e rurali, ma vengono regalate alle imprese straniere dagli scintillanti palazzi di Lima, sulla costa. Guarda a caso le proteste, che chiedono anche una decentralizzazione del potere politico dalla lontana capitale, hanno origine proprio in quelle zone il cui sfruttamento non è mai terminato, nemmeno con l’indipendenza del 1821. Il popolo si sta rendendo conto della necessità di un ricambio della classe politica e dell’abbandono di una Costituzione figlia di una dittatura, che permette il saccheggio delle multinazionali, sull’esempio di ciò che è avvenuto nel vicino Cile. A questo si aggiunge il malcontento generale nel mondo del lavoro e la rabbia mai sopita del popolo. La guerriglia comunista di Sendero Luminoso negli anni ‘70 e ‘80 fu un altro sintomo di questo senso di ingiustizia secolare, con il suo impegno nell’eliminare il feudalesimo dalle campagne. Tuttavia, un autista di autobus proveniente dalla realtà bucolica circostante a Cuzco racconta che fino alla generazione precedente alla sua, vigevano rapporti di potere talmente radicati e brutali tra il latifondista e i peones, che una normale assunzione di lavoro prevedeva che questi ultimi cedessero la propria moglie per una notte al primo.
La questione va ben al di là dei giochi politici dell’attualità, dunque: nasce dalle radici del passato coloniale che il Perú non ha ancora avuto il coraggio di recidere. Un rappresentante di un collettivo del mercato di Puno, durante le proteste a Lima, spiega l’altro aspetto essenziale: “Stai tranquillo” dice, “La polizia non ti farà niente: non sembri un nativo.” È lì che vengo a sapere che tra i sessanta morti e i più di mille feriti, il filo conduttore non è solo la partecipazione alla rivolta: le etnie quechua e aymara sono sistematicamente perseguitate dalle forze dell’ordine, soprattutto nelle strade della capitale e nella regione costiera. Da sempre, questa zona si sente superiore e progredita rispetto ai semplici contadini e montanari delle Ande, in virtù della propria ricchezza e internazionalità. C’è un forte classismo che si insinua nella società peruviana, dovuto all’importazione di miti occidentali per cui il successo di ciascuno è dato dalla sua macchina, dai suoi vestiti o dalla sua provenienza. Nel caso del rapporto tra Lima e il resto del territorio, tra la costa e l’entroterra, questa dinamica si trasforma in un razzismo strisciante che spacca il Paese a metà. A livello storico, l’eredità dell’impero Incas è molto più sentita nelle zone dei quechuas e degli aymaras, così come nell’ex capitale del regno, Cuzco, sopravvive un’atmosfera nostalgica di tradizioni e preservazione della memoria. Oltre a Machu Picchu e ai numerosi siti archeologici, c’è un mantenimento dei nomi e degli abiti tradizionali; le cholitas, signore con larghe gonne vittoriane e stretti cappelli a cilindro importati dalla moda europea, hanno molto più in comune con i vicini popoli boliviani, separati dalla linea immaginaria e imposta del confine nazionale, che con i sofisticati e cosmopoliti abitanti di Lima. Sulla costa, il commercio e la globalizzazione hanno cancellato tutto questo, lasciando dietro di sé un’identità insipida e turistica.
Un buon esempio sono le chiese: a Cuzco, sono state erette dagli spagnoli sopra i templi incaici con i loro stessi materiali dopo averli distrutti, per eliminare ogni traccia della cultura pagana: tutti sono consapevoli di questo ruolo colonizzatore, dallo storico al passante casuale. Come raccontano i cittadini, non senza una certa soddisfazione stretta in mezzo ai denti, molte di esse sono crollate con i numerosi terremoti, a differenza dei solidi edifici dell’impero precedente. A Lima invece, in alcuni luoghi clericali ora si sono insediate le banche, nei palazzi storici i negozi o le istituzioni: la pomposità della capitale è disconnessa dal Paese a cui appartiene.
In tutto questo, va ricordato che una larga parte, nel Nord-Est, è ricoperta dal manto della foresta amazzonica. Qui, come in Colombia, in Brasile o in Bolivia, è un luogo comune affermare che l’Amazzonia è uno Stato non riconosciuto, isolato dalle questioni politiche, con problematiche tutte sue. I nativi boras di Padre Cocha ad esempio, con cui ho convissuto per alcune settimane, si rapportano alla politica solo in base ai propri interessi in quanto comunità, alle negoziazioni del governo con i loro leader. Non c’è destra o sinistra, solo politici che aiutano gli indigeni o politici che non li aiutano. Solitamente, tutto ruota attorno al fatto che ogni tribù vuole riappropriarsi della terra che gli appartiene e che gli è stata sottratta, con il confinamento nelle riserve, ma non mancano le misure populiste: Fujimori, ora in carcere per i suoi innumerevoli crimini, è visto ancora con nostalgia in buona parte dei paesini che costeggiano il Rio Ucayali. Pare che l’ex dittatore viaggiasse continuamente nelle province del Paese, soprattutto in Amazzonia, facendosi percepire come un sovrano vicino e presente attraverso numerosi regali: barche, motori, attrezzatura per pescare, televisori… Quando mi viene raccontato ciò, nelle orecchie mi risuonano le parole con cui i paisas di Medellín giustificavano Pablo Escobar in Colombia, sulla base delle case e degli stadi che fece costruire nei quartieri più poveri.
Su quei televisori, oggi i nativi vengono bombardati dalle sciocchezze propagandistiche che i canali privati, massicciamente finanziati dal governo di Boluarte, riversano sui manifestanti, chiamandoli persino terroristi. Lì non arrivano i quotidiani e il web è un mondo perlopiù misterioso, per cui la TV è l’unico mezzo di informazione sull’esterno. Dalla loro oasi di albe e tramonti, di caccia e di pesca, ne consegue che gli abitanti dell’Amazzonia non hanno la coscienza critica per analizzare la situazione odierna e unirsi alla lotta per la propria emancipazione, per ricevere scuole e ospedali invece di barche e turismo. Oltretutto, le differenze culturali con i popoli andini sono abissali: “Il Perù è un Paese multiculturale” spiega il proprietario di un ostello di Pucallpa, alla fine della selva amazzonica, con un certo scetticismo. Il punto è che è a stento un Paese: sembra più che dalla fine della dittatura, la quale le teneva assemblate con la forza, le varie componenti percorrano ognuna la propria strada, a volte disprezzandosi pure a vicenda.
Chiedo conferma di questa impressione a un ragazzo che regala copie della Costituzione durante una manifestazione a Puno, il quale mi smentisce immediatamente: l’orgoglio di essere peruviani rimane per tutti. Per quanto alcuni in queste zone inneggino l’annessione alla Bolivia, lui sostiene si tratti solo di una provocazione per attirare l’attenzione del governo centrale, dall’altra parte del Paese. La Bolivia è altresì un modello da seguire, per loro: le politiche d’integrazione dell’amministrazione socialista degli ultimi vent’anni, guidate dalla figura influente di Evo Morales (non a caso un presidente di etnia aymara), hanno portato alla creazione di una forte identità nazionale composta da più di trenta etnie diverse, e alla consapevolezza del suo multiculturalismo. Malgrado anche in Bolivia ci siano contrasti e problemi di razzismo tra Est e Ovest, soprattutto riguardanti l’industrializzata e ricca provincia di Santa Cruz, secondo il manifestante il Perú ha solo da imparare.
Unire i nativi dell’Amazzonia, i popoli eredi degli Incas sulle Ande e gli abitanti della costa e di Lima è in fondo la conditio sine qua non per potersi liberare delle multinazionali estere che come parassiti tendono le loro mani su mine e giacimenti, per farla finita con una classe politica corrotta e con una Costituzione che mette in vendita il popolo intero e i suoi sacrifici, e per dare il via a un’economia autosufficiente, magari attraverso la messa in piedi di un’industria nazionale.
La Bolivia sta faticosamente collegando i puntini delle diverse culture, attraverso la facilitazione dell’accesso a istruzione e sanità per i nativi delle zone più isolate, ad esempio, o narrazioni nazionali che passino per la bandiera multicolore, la wiphala, un simbolo talmente forte che è stato adottato anche dai manifestanti in Perù.
In Cile, il processo per riscrivere la Costituzione è già in corso, dopo essere passato dagli stessi sacrifici nella lotta in piazza. Il Paese è altrettanto spaccato a metà e l’industria mediatica dei monopoli privati osteggia in ogni modo il cambiamento, ma esso è in atto e questo è innegabile. In Brasile, il presidente Lula non ha perso tempo e dalla sua rielezione sta riprendendo i contatti con i nativi nella valle del Javari, al confine col Perù, per combattere la criminalità organizzata dovuta al traffico di droga e rafforzare il controllo statale sulla zona. Nei pressi di Jenaro Herrera, un imprenditore di una ditta di madeira, il legname con cui si costruisce qualsiasi cosa da queste parti, prima di dedicarsi alla deforestazione era un agente della DEA che collaborò a lungo con gli americani. Cacciò i guerriglieri colombiani delle FARC e quelli peruviani di Sendero Luminoso per la maggior parte della sua carriera, oltre che i narcotrafficanti di entrambi i Paesi. Sostiene che ora si produca molta più cocaina (e di qualità molto più alta) nell’amazzonia peruviana, mentre i colombiani si occupano della distribuzione lungo la rotta fino a Manaus e, da lì, in tutti gli acchitati salotti occidentali. L’amministrazione brasiliana inizia a prendere provvedimenti, ma non può combattere da sola questa battaglia.
Infine, in Colombia il nuovo presidente Petro è avvolto da una sorta di aura di speranza di cambiamento, percepibile in tutti i discorsi della gente comune, dovuta forse al fatto che è il primo rappresentante della sinistra a guidare il Paese. In tutti i vicini di casa del Perù sta montando un’ondata socialista che, a vari livelli e in varie fasi di evoluzione, cerca di mettere in atto quella trasformazione sociale di cui l’intero continente ha bisogno. Il Perù non può essere da meno: la sua resistenza ha trovato la solidarietà e l’appoggio internazionale dei leader e dei Paesi nominati, dunque da essa dipende anche la solidità di un eventuale fronte socialista e anti-imperialista nella zona.
La rinuncia di Boluarte, lo scioglimento dell’attuale Congresso e la formazione di un’assemblea costituente sono solo i primi passi necessari, lungo la via di uscita da un sottosviluppo voluto e calcolato fuori dai confini nazionali. In quella serranda abbassata, nel mercato Bellavista di Puno, risiedono le speranze per il futuro del Paese.
Costantino Bovina