
Immobile nel letto, giace Vincenzo. Con lo sguardo fisso al soffitto, tocca la sveglia per interromperne l’acuto stridore. A tentoni, strizzando gli occhi ad ogni forma simile ad una lente, cerca i proprio occhiali. Senza di essi, per Vincenzo ogni oggetto è sciolto in un mare indistinto di colori e forme. Risuonano le voci dei suoi genitori, che già da alcune ore animano il loro piccolo appartamento. Incerto, siede sulla tazza del water, fissando il rubinetto sporco di calcare e lo specchio lucido innanzi a sé. Sente, in attimi come questo, la distanza fra lui e il mondo esterno. Ognuno, per Vincenzo, vive in grandi abissi, malamente collegati. Le teste degli uomini sono insondabili, come cilindri di piombo. La differenza consiste nella qualità di questo rivestimento. In alcuni è molto sottile, così che risulta molto semplice, dopo pochi tentativi, estrarne il contenuto. Per altri invece, è di uno spessore tale da rendere difficile ogni movimento d’entrata e d’uscita.Egli sentiva di appartenere a questa seconda categoria. Non riusciva a spingersi nei pensieri altrui e ancor meno nei propri. Alle volte, seduto immobile nel proprio studio, aveva tentato di decifrare sé stesso. Erano questi i momenti di maggior pena per lui. Riusciva a scorgere solo un’enorme e apparentemente vuota oscurità. A questa angoscia immobilizzante opponeva, in alcuni momenti, la vitalità dei suoi pensieri attraverso l’azione del suo corpo. Invaso dal proprio mare interno, febbrilmente prendeva a camminare attraverso la stanza che lo accoglieva, godendo della perfetta concordanza che in quegli istanti sentiva fra i movimenti della sua mano e i suoi pensieri.Immerso in questi ragionamenti, Vincenzo non sente che suo padre, da fuori, lo sta chiamando:
– Non ci senti? Sono da mezz’ora qua fuori a bussare e non rispondi. Muoviti, mi serve il bagno!
Vivere in famiglia era diventato difficile. Ogni oggetto in quella casa emanava una luce sinistra ai suoi occhi. I genitori di Vincenzo avevano costruito negli anni un arredamento scarno, composto da poche suppellettili. Particolare cura era stata riservata alla scelta di piccoli quadretti, di scarso valore, che abbellissero le pareti. Riproducevano tutti quasi la stessa scena: una strada, poche persone e una placida aria di festa. Erano immagini neutre, non troppo felici e nemmeno per questo troppo vicine alla tristezza. L’iniziale sentimento di ammirazione verso la bellezza di quelle forme e colori veniva sopraffatta, dopo pochi secondi, dall’impulso di fuggire da quegli stessi luoghi. Eppure, nonostante ciò, ogni ritorno rappresentava per lui un momento agognato e fortemente desiderato.
Vincenzo, ridestatosi dai propri pensieri, è adesso nella sala da pranzo. La finestra spalancata lascia entrare la luce tenue ma già forte del giorno che nasce. Sua madre lo attende, come ogni mattina, con un pantalone aderente, corto alla caviglia e una canotta viola. Non porta il reggiseno, per abitudine alla comodità. Intenta a preparare la colazione, non sente che Vincenzo è alle sue spalle.
– Vincenzo ti vuoi muovere? Il latte è pronto da molto, si fa freddo!
– Il latte caldo non mi piace, preferisco berlo freddo.
La madre si gira con sguardo colpevole, consapevole di avergli mentito per indurlo a fare presto. Al suo viso, Vincenzo oppone una espressione piatta ed inespressiva che non tradisce i suoi pensieri. La colazione si limita, da tempo, ad una sola tazza di latte, fredda e senza zucchero. Niente biscotti, niente caffè. Nel breve tragitto che separa la cucina da uno dei due bagni di casa dove Vincenzo è solito lavarsi i denti, risuona la voce di suo padre che, leziosamente, ripete:
– Vai più piano! Questi denti devo durarti tutta la vita!
Nella penombra del bagno, Vincenzo intravede il suo volto nello specchio lucido sopra il lavandino. La propria figura riflessa riaccende l’irrequietezza del suo risveglio. Vestitosi, esce attraversando con passo nervoso il cortile del condominio, senza prestare attenzione alle persone che gli si fanno incontro.
“Non è una giornata di convenevoli” pensa.
La serratura della macchina appare indecisa di fronte alla chiave, quasi a voler opporre resistenza alla sua fuga. Finalmente riesce a compiere il suo giro di 180 gradi, permettendogli di salire nell’abitacolo. La strada dinanzi a lui appare come un lungo serpente nero in continuo movimento. I semafori, gli incroci, la lentezza del traffico non gli sono amici. Davanti al loro ordine, Vincenzo si sente imbrigliato, rinchiuso, senza possibilità di movimento alcuno. Dopo circa un’ora dall’inizio del suo viaggio, compaiono le prime indicazioni per diverse località balneari. Il suo isolamento viene interrotto dal caldo dell’auto che lo costringe ad abbassare i finestrini per far entrare una ventata d’aria fresca.
Tempo qualche attimo e viene investito da unodore salino che, invadendo la macchina, risveglia la sua mente ancora intorpidita. Ad esso si accompagna il ritmo irregolare ma costante delle onde che si infrangono sulla costa.
Il mare comincia così a prendere forma davanti ai suoi sensi. Si abbandona all’eccitazione dell’udito e dell’olfatto, lasciandosi guidare da essa. Imboccato il lungo stradone che porta verso il litorale, viene colpito dalla sua incuria e bruttezza: gli appare come un luogo abbandonato dall’uomo, la cui presenza è testimoniata solo dai piccoli cumuli di spazzatura che interrompono la monotonia dell’erba incolta e bruciata dal sole ai due lati della strada. Il sole, qui, è decisamente più feroce che in città, quasi volesse nascondere la bellezza residua del paesaggio ad occhi indiscreti. Con sua sorpresa, trova facilmente un angolo solitario di spiaggia su cui sedersi in prossimità del mare. Sceso dall’auto, inizia a camminare sulla sabbia riscaldata dal sole, ormai alto nel cielo. Libero, il suo sguardo spazia sulla spiaggia innanzi a sé, respirando a pieni polmoni l’aria marina. Scorge, non troppo lontano, una massa scura e impossibile da decifrare/riconoscere, che si confonde con altri oggetti portati dalla marea. Man mano che avanza, sotto i suoi occhi, prende forma il corpo di un uomo. È in posizione supina, con le braccia tese lungo il corpo e il volto riverso sulla sabbia. Prima di girarlo per scoprirne il volto, si sofferma a guardare suoi vestiti. Probabilmente, ignaro della sua imminentefine, aveva scelto dei bermuda di colore scuro, lunghi fino al ginocchio, e una maglietta nera in tinta unita. Non indossava scarpe, di cui non si scorge ombra alcuna sulla spiaggia. Deciso a scoprirne il volto, Vincenzo gira il corpo con la delicatezza che normalmente si riserva a chi giace rapito dal sonno. Una fronte larga faceva da anticamera alle folte sopracciglia a guardia degli occhi: occhi grandi e circondati da borse messe in risalto dalla morte, ormai sua padrona. Il naso, invece, leggermente ricurvo in avanti, era di media grandezza, con una piccola gobba che non pareva guastarne il profilo. Sotto di esso, la bocca sottile era accerchiata da una barba rada e di un rosso acceso. Sembrava un volto giovane, non troppo bello ma acceso da una grazia particolare e non ancora del tutto sfiorita. Vincenzo, con sorpresa, non provava angoscia alcunadavanti al corpo esangue: al contrario avvertiva un inspiegabile senso di familiarità. La brezza marina, ora più forte, agita il mare, mentre Vincenzo, immobile, osserva quel volto, non capendo perché esso gli appaia così familiare. Nessuna fra le sue conoscenze assomiglia o ricorda l’uomo che giace difianco a sé. Guarda il mare mentre un piccolo stormo di gabbiani, in cerca di cibo, passa non troppo alto sopra la sua testa. Uno di loro, con slancio poderoso, scende in picchiata tuffandosi nel mare. In meno di un minuto è sul pelo dell’acqua, con la sua preda che disperatamente si dimena cercando di divincolarsi dalla presa mortale che la tiene stretta. Il gabbiano con voracità la ingoia, indugiando sazio sulla riva. Accanto a lui, piomba a peso morto un altro gabbiano, deltutto identico a quello che pochi attimi prima si era lanciato in cerca di cibo. I due uccelli, agli occhi di Vincenzo, appaiono uno come il sosia dell’altro. Uno vive ancora mentre l’altro giace accanto al suo compagno, ormai immobile. Nelle loro sorti opposte si sono uniti come un unico essere sdoppiatosi per prolungare il proprio tempo vitale. Vincenzo gira lo sguardo ancora una volta verso il cadavere affianco a sé. Per studiarne meglio il profilo si distende sulla superficie calda delle sabbia. Il senso di familiarità che già prima l’aveva colto, rimbalza con forza verso Vincenzo. Spinto da questo, egli cerca il proprio cellulare per scattare una foto al corpo esangue a pochi centimetri da lui. Più e più volte, atterrito, scruta l’immagine sullo schermo del telefono. Le due facce sono del tutto speculari fra loro, eccezion fatta per il colorito più roseo di Vincenzo. “Siamo la stessa persona? Tutto in me ricorda lui e viceversa. La punta del nostro mento è piccola e aguzza allo stesso modo. La fronte, in modo uguale, è collegata da folte sopracciglia. Il naso, in entrambi, è un piccolo cammello a guardia della bocca. Non posso essere io. Io, Vincenzo, sono qua vivo, nel pieno dei miei anni. La morte per me è come l’orizzonte del mare, lontana e quasi impercettibile”. La vertigine si impossessa del suo corpo. Alzatosi, barcollante, si avvia lungo la spiaggia per ritornare alla sua auto. Con fatica avanza, affondando le scarpe nella sabbia bollente. Giocando con sé stesso, conta i propri passi, nel tentativo di mantenersi vigile. Camminando incrocia un uomo che, insieme al suo cane, procede dal mare verso la strada. Di corporatura robusta, il colore scuro della pelle è messo in risalto dal pantalone di lino bianco. La testa, in proporzione più piccola rispetto al resto del corpo, è coperta da un capello di paglia usurato dal sole. Alcune ciocche bianche, visibili al di sotto del cappello, insieme all’andatura lenta, ne confermano l’età avanzata. Vicini abbastanza per sentire le rispettive voci, i due iniziano a parlare:
– Uagliò cosa ci fai su questa spiaggia? Non vedi che è buona solo per portare il cane a correre?
– Bbbuongggiorno…Guardo il mare…
– C’è solo la spazzatura da guardare qua.
L’improvviso abbaiare del cane interrompe la conversazione, lasciando Vincenzo di nuovo solo in compagnia dei suoi pensieri. Salito in macchina, il piccolo orologio elettronico sul cruscotto dell’auto lo riporta al presente. Non vorrebbe far già ritorno a casa ma l’incontro fatto sulla spiaggia ha risucchiato tutte le sue energie, rendendo il rientro necessario. Rimasto con il pensiero alla sagoma di quell’uomo, segue la strada che si apre piatta e vuota, quasi invisibile ai suoi occhi. “Non ero io” pensa “Il mio respiro è ancora forte, il mio corpo ha gli appetiti di sempre. Non è un morto reale né tantomeno un presagio di morte. La mia mente, nel tentativo di lanciare fuori di sé la propria angoscia, ha creato questa allucinazione. È paura della morte o di essere ucciso? La paura di morire è comune a tutti gli uomini che, per istinto naturale, ne hanno il terrore. L’attaccamento alla vita opera senza sosta dentro di noi. Siamo usati e consumati dalla vita, fino all’ultima goccia di sangue. Comodo è il pensiero che l’uomo, grazie alla sua razionalità, sia riuscito a imbrigliare le forze della natura per vivere un tempo che si allunga sempre di più. Si può obiettare che l’incondizionata fede degli uomini nella ragione è cosa passata e che essi, oggi, siano più accorti nel decretarne la vittoria sul mondo. Immutata è l’idea della vita come un nostro possesso, sotto il nostro controllo. Noi siamo posseduti dalla vita e non viceversa. Diversamente, la mia allucinazione potrebbe essere legata alla paura di essere ucciso. Ucciso da cosa? Il cadavere era riverso sulla spiaggia, poco lontano dal mare. Esso è stato inghiottito, masticato e poi rigettato via. Non c’è giustizia in questa azione, ma solo la sua violenza su di me. Non c’è ragione, ma solo l’angoscia di una potenza, quella del mare, che mi ha preso e distrutto.”
Con questi pensieri, si risveglia davanti al cancello di casa. Sull’uscio, Vincenzo viene investito da un forte odore di frittura: aveva dimenticato che oggi è giornata di baccalà fritto.
di Fabrizio Campanile