RAVE NEW WORLD. L’ULTIMA CONTROCULURA. – RECENSIONE

È ormai passato più di un mese dalla conversione del Decreto Rave in legge. Il 30 dicembre 2022, infatti, la camera ha approvato una delle prime azioni promosse dal governo Meloni, quella che serviva a contrastare i temutissimi raduni musicali non autorizzati. Dopo il Witchtek di Modena giornali e media tornano a parlare di free party, e il governo annuncia la definizione di una norma specifica che contrasti il fenomeno; di fatti, si colloca ora il nuovo articolo 633-bis (Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica). A differenza della prima versione del decreto, troppo vaga, quella definitiva prevede la reclusione da 3 a 6 anni per gli organizzatori della festa e una multa da 1.000 a 10.000 euro “quando dall’invasione deriva un concreto pericolo per la salute pubblica o per l’incolumità pubblica”. Pene che risultano le più alte d’Europa. Inoltre, il cuore della narrazione dei media sembra focalizzarsi, come sempre, su storie di illegalità e abuso di droghe in un contesto non controllato e soprattutto che non giova profitti ai soliti noti. Sembra dunque necessario portare una contro narrazione che chi non conosce la storia e il movimento dei free party ignora o non immagina. È ciò che ha fatto Tobia D’Onofrio con Rave new world, l’ultima controcultura, saggio edito da AgenziaX e ripubblicato nella sua versione aggiornata nel 2018. Quello di D’Onofrio è più di un saggio perché, oltre a raccontare la storia e le origini dei free party, comprende moltissime interviste a chi ha contribuito a fondare il movimento e che dunque lo ha vissuto appieno, come gli Spiral Tribe o la Mutoid Waste Company. Inoltre, Tobia D’Onofrio ha vissuto dall’interno il movimento rave in Italia per molti anni, per questo motivo il libro è permeato anche dalle sue esperienze, dai suoi ricordi. Il libro è davvero un’enciclopedia, adatto non solo a risvegliare o amplificare le emozioni di chi vive il movimento, ma anche agli outsiders, a chi a un rave non ci è mai andatə ma non vuole fermarsi alle rappresentazioni superficiali che ne fanno i media e la televisione. Il movimento rave nasce dall’unione e dal mix di diverse controculture. Nasce in Inghilterra spontaneamente, prendendo in prestito elementi già esistenti, ma rielaborandoli, unendoli e adattandoli allo spirito dellə partecipanti. Del mondo hippy, ad esempio, ritroviamo la filosofia del “peace and love”, dello stato alterato di coscienza e anche di alcune sonorità che avevano caratterizzato gli anni Sessanta e che si ritrovano nella prima scena acid house di Manchester; dal punk, invece, risucchia la filosofia del “DO IT YOURSELF” e la storia dei sound system e delle street parade, così come anche l’estetica post-industriale. Il movimento rave non si limita, però, a mettere insieme queste caratteristiche, ma le estremizza, le stravolge e le sradica del loro primo significato. Nell’epoca del tatcherismo più duro e rigido, le pacifiche street parade di un tempo diventano un mezzo di lotta e rivolta, la retorica del “peace and love” non ha più la valenza politica di un tempo ma l’edonismo sfrenato recupera un posto centrale, alimentato dal fatto che le droghe non sono più per pochə, ma a disposizione di tuttə. La stampa inglese considerava questi party come luoghi di completa perdizione, non solo per l’abuso di droghe, ma per l’atteggiamento pacifico e spensierato, che mal combaciava con lo spirito workaholic promosso dal governo, fortemente spaventato dunque della sempre maggiore popolarità di queste feste. Durante la fine degli anni Ottanta si poteva partecipare a un party illegale praticamente ogni giorno, dice D’Onofrio. Il governo provò a contrastare il fenomeno in diversi modi, da un lato promuovendo in maniera assidua i party legali, da cui sarebbe nato il business multimilionario che conosciamo oggi, dall’altro invece utilizzando maniere forti. Nel 1990, infatti, il governò attivò l’Entertainments Act, favorendo i party legali a discapito di quelli illegali, mentre nel 1994 attivò il Criminal Justice and Public Order Act, che vietava “eventi dove la musica include suoni pienamente o predominantemente caratterizzati dall’emissione di una successione di battiti ripetitivi”. Di fatto, metteva fuorilegge la cultura rave. Questi, però, furono anche gli anni della nascita e formazione degli Spiral Tribe, uno dei sound system che avrebbe rivoluzionato la scena e gli anni in cui i raver, di cui molti anche traveler, si allontanano dagli ambienti più repressivi e invadono l’Europa ancora ignara di cosa sarebbe successo. In Italia, le prime grandi feste illegali arrivano nel 1993, ma la scena rave ha dovuto competere con la radicatissima scena dei club legali, così come anche in Germania. Le discoteche, infatti, anche quando cercavano di emulare i rave party, riuscivano solo a restituire una ripetitività “compatibile con la progettualità aziendale”. La cultura rave trova terreno fertile soprattutto in Francia, tanto che nel 1993 ci fu il primo teknival.Oltre a tenere la linea del tempo del movimento, l’autore va al cuore della filosofia della cultura rave e della sua influenza nel nuovo millennio. Il movimento, come detto prima, nasce dall’unione di diverse controculture e al suo interno cresce unendo a sua volta diverse istanze , come le lotte politiche dei centri sociali, quelle della comunità LGBT+, le proteste anticapitaliste. Se il fenomeno ha avuto la sua massima esplosione agli inizi degli anni zero per poi cominciare ad eclissarsi, è bene ricordare che le sue radici sono però molto più antiche. La sua storia, infatti, si può collegare alla transe delle antiche feste dionisiache, al ballo dei tarantolati del sud Italia, alle danze sciamaniche degli Indiani d’America. Gli intenti e i valori dei raver sono dunque chiari, ma qual è lo scopo? Ci dice D’Onofrio che il fine è proprio il fatto che non ci sia nessuno scopo ultimo. I raver aspirano alla libertà assoluta d’espressione, in cui la comunicazione è orizzontale, senza gerarchie, e in cui avviene la massima condivisione di beni e pratiche. Quello che stupisce e che non si era mai verificato prima in nessun’altra controcultura, è la totale inclusività del movimento. Non ci sono regole, tuttə possono entrare a far parte della cultura rave e creare in poco tempo un sentimento di sorellanza, grazie sicuramente anche all’amore chimico. Fondamentale è anche la volontà e ricerca di unicità per allontanarsi dal pensiero massificante. Proprio per questo la scena rave è sempre stata un’esultanza di creste, acconciature, dreadlock, ma anche di tatuaggi e piercing di tutti i tipi. Quella dei raver è stata (è?) una generazione mutante. Complici di questo senso di comunità fortissimo che unisce persone anche molto diverse tra loro sono sicuramente le droghe. Tobia D’Onofrio parla approfonditamente di questo aspetto della cultura rave, in modo molto scientifico ma anche molto pratico. Negli anni il movimento è cambiato e così anche le mode e le droghe consumate. Se la prima a diffondersi fu l’ecstasy, poi quest’ultima ha lasciato il posto alla special-K, il fattore K, o più semplicemente ketamina. La ketamina è un anestetico allucinogeno, più potente di funghetti e LSD perché distorce la visione, ovatta il suono, diminuisce la funzione tattile. Se da un lato è innegabile la presenza di droghe in questo tipo di feste (come d’altronde succede nelle discoteche e nei club legali), D’Onofrio parla di riduzione del danno, una pratica che consiste nella presenza di punti informativi e di assistenza da parte di persone qualificate in tutte le feste illegali. Da questo punto di vista, la città di Bologna è stata pioniera di questa pratica grazie al Lab57 che dal 1996 inizia a fare drug checking, ovvero il controllo della qualità delle droghe. In occasione delle feste, alcuni tipi di sostanze aiutano il raver a raggiungere uno stato di transe, ovvero una modificazione di coscienza per cui c’è bisogno di preparazione non solo fisica ma anche psicologica. E qui entra il gioco la musica techno, che ha un ruolo fondamentale perché permette al raver di uscire dalle tradizionali regole della realtà e del tempo e dai “normali” codici di condotta. Inizia dunque una danza liberatoria che sfugge al controllo perché libera dalle sovrastrutture esterne e unisce le persone davanti a un enorme muro di casse. L’autore cerca infine di fare un punto sulla situazione attuale della scena, che ovviamente negli anni si è modificata. Attraverso le interviste a persone-cardine del movimento ha ricostruito i motivi per cui la forza propulsiva del movimento si è spenta, o per lo meno si è affievolita. Le critiche e le autocritiche al movimento sono molte, ma la voglia di raccontare e di far continuare a vivere la cultura rave traspare da ogni dove.

Vogliamo libertà dalla società statica. Libertà di creare le nostre società con le nostre regole. Più che ribellarci contro il sistema, noi viviamo al di fuori di esso. Produciamo musica gratis per chiunque ne voglia e non chiediamo niente in cambio, se non spazio per girovagare. Ritmi tribali hanno attorniato il nostro pianeta per migliaia di anni. La tecnologia è ciò che noi aggiungiamo a questo ritmo continuo. L’età non importa, il background è irrilevante. Esistiamo adesso e nel futuro. Benvenuti nel nostro stile di vita.

– Vinca Petersen nel libro fotografico No system, 1999

di Matilde Alvino

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