
Se ci fosse qualcuno che ci tenesse allo stato di salute di “quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia”, per dirla con le parole di un cantautore abbastanza furbo da levarsi di torno prima che le cose si mettessero male, ecco, questo qualcuno potrebbe dilettarsi in una lunga caccia all’errore, nel corso di questa patetica campagna elettorale. Non che gli errori vadano cacciati più di tanto: lo scarto tra la democrazia, concetto astratto che da secoli giustifica le nostre malefatte, e la sua effettiva applicazione è sotto gli occhi di tutti. È individuabile nella povertà di idee dei programmi politici, nell’astensionismo che sfiora il 36% a due settimane dal voto, nella legge elettorale poco rappresentativa, nel taglio dei parlamentari che spingerà ancor di più ogni partito a garantire le poche poltrone ai soliti fossili intoccabili.
Se qualcuno ci tenesse avrebbe di che divertirsi, insomma. Ma non sono in molti quelli a cui interessa qualcosa, tantomeno tra noi giovani. E come biasimarci? In questo momento, dei 629 parlamentari della Camera dei deputati, solo 24 hanno meno di trent’anni, il 3,82%. Gli ultracinquantenni invece sono 136, il 21,62%, mentre gli ultrasessantenni 65, il 10,33%. Per non parlare del Senato, che prima della nuova riforma era predominio delle fasce di età più adulte, e in cui tutt’ora l’età media è di 57 anni.
Nessuna rappresentanza a livello demografico, in definitiva. D’altra parte, come buona parte dei Paesi privilegiati, siamo una popolazione in costante invecchiamento, con un’evidente sproporzione tra la generazione dei baby boomers e quelle successive. I dati Istat sostengono che nel 2050 ci saranno tre over-65 per ogni under-14. È inevitabile che una democrazia rappresentativa, come quella che ci sforziamo di tenere pietosamente in piedi, rispecchi gli interessi della maggioranza, e di questo si tratta. È inevitabile che nei programmi elettorali si parli di pensioni invece che di ambiente, di tasse e bollette invece che del sistema dell’istruzione, di famiglia invece che di precarietà e prospettive. Più che della metà dei giovani che non andrà a votare, c’è da sorprendersi di quella che avrà il coraggio di mettere una X su tutto questo, perché molto più eccezionale è assistere a una fetta di popolazione colpevolizzata, sfruttata, svalutata e privata del proprio presente e del proprio futuro, che comunque si ostina a cercare riscontro nel dibattito politico – per quanto sia raro che si sentano effettivamente rappresentati.
È la fascia di popolazione a cui sono stati richiesti più sacrifici nei due anni appena trascorsi, la stessa che nonostante ciò è stata maggiormente accusata della diffusione del virus, e che ora è tornata nel dimenticatoio delle agende politiche, in quanto ininfluente nei sondaggi, totalmente incomprensibile e aliena per le menti rugose e stempiate dei palazzi di potere. Si tratta degli stessi ragazzi e ragazze a cui è esplicitamente ostacolato il diritto di voto, in quanto l’Italia è l’unico Paese dell’UE – a parte Cipro e Malta, che però sono grandi come noccioline – a non garantire una forma di votazione a distanza per gli studenti e i lavoratori fuorisede. Voto per corrispondenza, voto per delega, voto elettronico, voto anticipato: sono numerose le misure adottate dagli altri Paesi europei, qui bellamente ignorate, a discapito di più di 570mila studenti e studentesse universitari.
Come in altri periodi storici, la realtà cambia in fretta e la politica fatica a stare al passo: è invecchiata e perde colpi. Che fare? Una proposta interessante proviene dalle mura di Cambridge, in particolare dal professore D. Runciman, ed è quella di adeguare il suffragio universale al mutamento demografico in atto. Ovvero? Ovvero fare votare i bambini.
In un articolo pubblicato sul Guardian, Runciman spiega che si tratterebbe di un allargamento della base di voto analogo a quelli già avvenuti nel corso della storia: nell’Ottocento con l’emancipazione del proletariato o nel Novecento con quella delle donne. La domanda è lecita: sarebbero abbastanza competenti per votare? La risposta lo è altrettanto: a nessuno è richiesto di esserlo, nella democrazia. La disinformazione dilaga, il disinteresse pure, e gran parte delle influenze a cui è sottoposto un bambino – scuola, genitori, amici, insegnanti, programmi televisivi, cerchie sociali – sono le stesse a cui sono sottoposti gli altri cittadini, che hanno questo diritto solo in quanto tali, non in virtù della loro competenza. Senza contare che il potere ha sempre utilizzato la stessa ridicola scusa anche prima del 1946, quando si pensava che far votare le donne fosse una misura inutile, in quanto avrebbero votato imitando i mariti.
Il concetto fondamentale è che non c’è nessun test da superare – a volte viene da pensare “purtroppo”, – nessuna abilità o conoscenza da dimostrare alla base di questo diritto, perché siamo tutti sulla stessa barca. Dunque perché escludere individui le cui vite, in ogni caso, saranno influenzate dalle scelte che altri faranno al posto loro? Per di più, ci sono orde di ultrasettantenni – e addirittura centenni – che soffrono di demenza senile o di altri tipi di declino cognitivo, pronti a marciare verso le urne armati di tessere in ogni condizione psicofisica. Forse bisognerebbe togliere loro questa possibilità, forse bisognerebbe persino inserire una qualche discriminazione su base conoscitivo-informativa e permettere di votare soltanto a chi è davvero partecipe ed interessato… Ma si tratterebbe ugualmente di erodere un diritto e un principio conquistato con anni di lotte, quello del suffragio universale, invece di rafforzarlo e ampliarlo.
In particolare, la proposta di Runciman, forse provocatoria, è di mettere la soglia a sei anni: l’età in cui un individuo inizia ad andare a scuola, a inserirsi nella comunità e a prenderne consapevolezza. Si tratterebbe di corrompere la purezza dei fanciulli con quella cosa sporca di cui si parlava sopra, come sostengono alcuni, o viceversa di restituire un po’ di vigore e di iniziativa agli ingranaggi cigolanti del dibattito pubblico, e magari anche un po’ di serietà, nel passaggio dai talk-show alle scuole. Potrebbe anche non cambiare niente: l’età media in Italia si mantiene intorno ai quarantasei anni ed è in aumento, il che significa che l’attuale squilibrio di potere tra generazioni è inevitabile; una misura del genere aiuterebbe soltanto a correggerlo e non a eliminarlo. Inoltre gli studi sociali affermano che tutti gli elettori, giovani e vecchi, istruiti e non, votano basandosi su appartenenza, identità e altre forme di condizionamento di gruppo, più che su scelte politiche e tecniche: i bambini non farebbero differenza.
Viene anche da domandarsi se tematiche come quella di un’imminente estinzione di massa non potrebbero forse ricevere l’attenzione che meritano, e quanto gli equilibri politici verrebbero stravolti da una situazione simile. Ad esempio, in un sondaggio di Cluster17 per Il Fatto Quotidiano, Fratelli d’Italia, attualmente considerato il primo partito nei sondaggi, otterrebbe il 5% nella fascia dei 18-24 anni, mentre viceversa un partito come Unione Popolare, che in quel momento era dato poco sopra l’1% in generale, otterrebbe il 9% nella stessa fascia di età.
È già piuttosto destabilizzante il fatto che quest’anno 3,8 milioni di neo-elettori si recheranno – forse – alle urne, unito alla nuova riforma, per cui anche i più giovani potranno eleggere i candidati del Senato. Alcuni leader politici se ne sono accorti, e malgrado siano convinti che basti aprire un canale su TikTok o fare qualche diretta demenziale in più sui social network per catturarne l’attenzione, resta il fatto che questo 8% dell’elettorato potrebbe davvero dare una spallata a certe forze politiche, e viceversa una spinta ad altre… Chissà cosa succederebbe se triplicasse, diventando una fascia che va dai 6 ai 24 anni.
Fare votare i bambini non sarebbe comunque la Rivoluzione d’Ottobre, sarebbe soltanto l’ennesimo cerotto da appiccicare a un sistema malato le cui contraddizioni vanno oltre il conflitto generazionale. Però potrebbe rivelarsi una ventata di cambiamento, potrebbe dare un po’ più di speranza alla metà dei ragazzi e delle ragazze che non l’hanno ancora persa del tutto. E chissà, perché no, magari anche all’altra metà, quella dei delusi, degli arrabbiati, degli stanchi che il 25 settembre sceglieranno di non scegliere, e si potrebbe pensare che si siano dimenticati cosa significhi essere parte di una comunità… Però non si può certo dire che la comunità si sia ricordata di loro.
Costantino Bovina