Sesso e Narrazioni

Nella comunicazione è implicita l’idea di mediazione, per cui ogni messaggio che inviamo all’esterno ci obbliga a metterci in scena. Allestiamo una “superficie significante”, indossiamo una maschera che parli per noi, che sia valida per tutta la durata dello scambio e che si relazioni con quella dell’altro soggetto. Questo è valido per qualsiasi tipo di comunicazione, dall’interazione faccia-a-faccia, all’arte, ai mass media, al sesso. Il caso del sesso, in particolare, riguarda intimità e finzione allo stesso tempo – almeno nel sesso canonico, prototipico, ma come vedremo più avanti non è sempre così.

Ci si aspetterebbe infatti che in un tale ambito di riservatezza si riveli il nostro Io più sincero, più vero, con tutto il suo bagaglio di piaceri perversi e insicurezze stratificate nel tempo, e che di conseguenza la mediazione tra soggetti sia del tutto assente. Nessuna maschera, nessuna copertura, nessuna proiezione psicologica che si frapponga tra lə due (o tre, o quantə volete); solo le schiette nudità che comunicano in modo finalmente trasparente e spontaneo. Anzi, forse “comunicano” non è il termine adatto, in quanto implica una presa di coscienza consapevole, un momento anche implicito in cui i soggetti decidono. Nel caso descritto invece si tratterebbe di pura e semplice espressione di se stessi.

Forse l’espressione è un modo più egoistico di pensare al sesso rispetto alla comunicazione? Comunicare con l’altrə significa essere attentə anche alle sue reazioni, ai suoi bisogni, alla sua realizzazione… Se invece ci si esprime si rischia di ignorare tutto il resto, di ritornare a uno stato animale di godimento incontrollato, e l’altrə diventa solo un mezzo. Portata all’estremo, la manifestazione selvaggia del Sé non è mai qualcosa di positivo: uno stupro ad esempio può essere inteso come l’espressione dell’odio sociale di un individuo per il genere femminile. Odio che, a sua volta, può diventare comunicazione consapevole, nel caso di uno stupro utilizzato come gesto politico, per mandare un determinato messaggio.

Rimanendo su questo versante, c’è un’alternativa: il sesso in cui la soggettività è annullata, la coscienza e la razionalità sono annullate, c’è solo l’espressione spontanea, c’è solo volontà di potenza direbbe qualcuno, ma per entrambi i soggetti. È il sesso in cui la connessione tra i desideri dell’unə e i desideri dell’altrə è talmente stretta che non c’è bisogno di comunicare, non c’è bisogno di sguardi o chiarimenti o auto-rappresentazioni. È qualcosa di più dell’intesa, è una sovrapposizione, una fusione delle soggettività, che diventano un unico attante duale (o collettivo), modalizzato secondo un’unica Competenza del /fare/ e del /volere/, per dirla in termini semiotici.

Eliminare ogni mediazione significa semplicemente lasciare che le cose accadano; un momento di liberazione paragonabile al satori zen, l’illuminazione derivante dall’atto puro in cui non c’è più alcuna differenza tra chi osserva e l’oggetto dell’osservazione – in questo caso noi stessi.

Tuttavia, non è facile raggiungere un simile annullamento della propria soggettività. Non è neanche necessario per fare del buon sesso.

Nella maggioranza dei casi, infatti, l’atto sessuale non è espressione ma comunicazione, dialogo tra due o più istanze. Come si diceva, nella sua intimità e nudità è paradossalmente una delle situazioni comunicative in cui più ci mascheriamo, in cui più ci auto-rappresentiamo a noi stessə e all’altrə. C’è infatti una soglia evidente che separa la dimensione sessuale dal prima e dal dopo, oltrepassata la quale subiamo una trasformazione dell’atteggiamento, del tono di voce, dei gesti. È una soglia che cambia forma e aspetto di volta in volta, ed è sempre delineata dalla situazione specifica: a volte è un bacio, a volte un movimento, a volte è entrare in casa o nella camera da letto, a volte è spegnere la luce… Superata questa soglia, la nostra percezione diventa più acuta e ci immedesimiamo in una persona (nel senso latino di “maschera”) nuova, innestata da noi per l’occasione, un personaggio che ci accompagna per tutta la durata dell’atto.

È un processo analogo a quello che avviene ai colloqui di lavoro, nelle conversazioni coi genitori – in cui torniamo inevitabilmente a interpretare la parte dellə figliə, – negli scherzi tra amici… Soltanto che durante il sesso questa simulazione è ostentata e portata all’estremo, per varie ragioni.

In primis, il bombardamento di rappresentazioni del sesso nei film, nei libri e nei porno alza le aspettative sull’atto in sé, che dev’essere perfetto, coreografico, coi tempi giusti di un drama hollywoodiano in cui non indossano profilattici, non sudano e raggiungono l’orgasmo sempre insieme. In secondo luogo, l’interpretazione di un ruolo è un meccanismo comunicativo che garantisce allo stesso tempo protezione dall’imbarazzo o dalla vergogna, soppressione dei pensieri e versatilità – se una maschera non è adatta posso sostituirla con un’altra, a patto di riuscirci senza spezzare lo sviluppo della scena in corso d’opera.

Senza bisogno di prendere in causa i giochi di ruolo, basti pensare al motivo per cui tante persone trovino eccitante fare sesso davanti a uno specchio: attraverso questo strumento possiamo assistere col distacco di uno spettatore alla nostra stessa recita. Lo specchio è un’eterotopia che ci restituisce una prospettiva esterna, ci aliena da noi stessə, alimentando sì il nostro narcisismo ma anche due dimensioni tra cui, secondo il sociologo Goffman, l’interazione oscilla continuamente: la ribalta, dove interagiamo con l’altrə, e il retroscena, in cui si cela la nostra identità. Lo specchio ci facilita nel realizzare dei debrayage, ovvero nell’instaurare un non-io (perché Io non sono più dentro di me, dentro il mio corpo), un non-qui (perché sono dall’altra parte dello specchio) e un non-ora (perché durante l’atto o guardo la realtà o guardo la copia riflessa della realtà, di solito in maniera alternata), attraverso cui si fonda la soggettività. Difatti un soggetto, nella teoria dell’Enunciazione a cui facciamo riferimento, è definibile in poche parole come un io che dice “io”, un io che pensa se stesso e quindi si auto-rappresenta.

Il sesso richiede di essere fisicamente e mentalmente presenti nell’attimo per goderne appieno, e lo specchio ci facilita in questo, ricordandoci che siamo lì, lo stiamo facendo, in quel momento. Il piacere di parlare che hanno alcunə durante l’atto sessuale è qualcosa di simile: sussurrare nell’orecchio dell’altrə che cosa faccio mentre lo faccio lo rende ancora più eccitante, in quanto raddoppia l’entità del reale, rende la mia azione vera due volte, una nel suo farsi, e una nel mio raccontarla. Altrə invece non riescono ad avere orgasmi se non possono fare rumore o urlare di piacere. A nostro avviso non si tratta solo della necessità di espressione selvaggia di cui parlavamo sopra, ma anche questo è un modo per dire e dirsi “Sto provando piacere” e quindi per realizzare – nel senso letterale di rendere reale un’altra volta – ciò che sta succedendo.

C’è chi trova molto più eccitante il sesso con sconosciutə proprio perché rende più facile questa recitazione, questo mettersi nei panni di un alter ego che possa essere di volta in volta brutale, dolce, violento, sottomesso, anche nel corso di un solo atto – termine che per la sua doppia valenza, atto teatrale e atto sessuale, ci piace utilizzare. Unə sconosciutə infatti non conosce la nostra identità, non sa nulla del nostro passato o della nostra personalità, e questo rende più facile proiettarci, creare uno o più debrayage che ci trasformino di volta in volta nel personaggio che vogliamo, che vuole l’altrə. Le avventure di una notte acquisiscono così uno status narrativo che dà loro un’aura di racconto, di avventura appunto, con cui lə protagonistə danno un senso all’esperienza e a se stessə.

C’è invece chi preferisce le sperimentazioni con partner di lunga data, ma il meccanismo alla base non cambia. Da un lato, leggersi a vicenda con una sola occhiata rende lo smascheramento molto più facile, che sia volontario o involontario: ad esempio, se durante il sesso unə dellə due si distraesse con un pensiero extra-diegetico, l’altrə se ne accorgerebbe subito e l’atmosfera sarebbe rovinata. Dall’altro lato, la profonda conoscenza reciproca assicura alla finzione uno statuto ancora più finto, la stacca ancora di più dalle situazioni esterne all’atto sessuale, andando a creare uno sdoppiamento radicale. Dunque: so come si comporta l’altrə il resto del tempo, so quali sono le sue molteplici maschere nelle varie situazioni e so che in questo preciso istante sta interpretando una parte, una parte con cui ho familiarità perché l’abbiamo già fatto tante volte. Questa familiarità è tale che riesco a mettere in connessione l’alter ego che ho sotto gli occhi con tutti gli altri che ho già conosciuto, arrivando alla fine a convincermi che il quadro complessivo della persona è reale, è naturale, è vero – le solite tre grandi illusioni insomma. Oppure rimango consapevole della finzione del sesso, che diventa l’angolo di relazione in cui /non-essere/ se stessə, la valvola di sfogo che garantisce autenticità a tutto il resto – un’altra inevitabile illusione a fin di bene.

È un processo analogo a quello del lettore o dello spettatore, il quale deve mettere da parte le sue facoltà critiche per godersi un’opera di fantasia: in semiotica viene chiamata sospensione dell’incredulità, ed è il motivo per cui ad esempio “accettiamo” che accadano i viaggi nel tempo, a patto che abbiano una coerenza interna e che anche nella loro impossibilità seguano delle regole logiche.

Nel sesso è uguale: sappiamo che si tratta di finzione, ma siamo dispostə a lasciarci immergere nella narrazione a patto che l’altrə resti coerente col personaggio che si è creatə, senza creare incongruenze, senza uscire e rientrare dal proprio ruolo. A tal proposito, nel BDSM si usa una safeword, una parola in codice che faccia capire quando interrompere la recita, per evitare che si chieda ogni due per tre “Va tutto bene?” “Ti sto facendo male?” eccetera. Queste richieste di rassicurazione costituirebbero infatti fuoriuscite dal ruolo e dalla scena paragonabili a un attore che guarda in macchina e commenta la scena.

È chiaro che nel sesso, come in tanti altri ambiti, non c’è quasi mai simmetria tra le parti di questo giocare – non a caso in inglese recitare un ruolo si dice to play a role: la finzione va intesa qui come giocosa, a volte maliziosa ma non per forza ipocrita. Ci sono infatti inevitabili dinamiche di potere che attraversano i rapporti tra le varie istanze, dinamiche che spesso irrompono dall’esterno e influenzano inevitabilmente lo svolgersi dell’atto. Finora abbiamo parlato del sesso come di una serie di azioni e di competenze acquisite per raggiungere il piacere, l’orgasmo, che è ciò che negli studi sulla narratività è chiamato Oggetto di Valore (OdV), ovvero l’obiettivo, il fine ultimo, in nome del quale il protagonista di qualsiasi storia agisce. Ma ci sono altri frames narrativi, in cui l’OdV riguarda l’ottenimento di altre cose, e la funzione stessa del sesso cambia.

È il caso dellə sex workers, ad esempio, che mettono in scena un frame di scambio commerciale: non più piacere in cambio di piacere, ma performance in cambio di denaro. Queste situazioni sono caratterizzate da due asimmetrie opposte: da un lato il cliente è in posizione dominante all’infuori dell’atto sessuale, in quanto spesso è più privilegiato dalla società – maschio, bianco, benestante, adulto, eccetera. Dall’altro, chi offre i propri servizi o la propria performance ha il coltello dalla parte del manico nell’intimità, in quanto è protettə dall’anonimato e dal dispositivo di finzione che gli permette di interpretare un’identità non sua, che si tratti della mistress o del toy-boy. Il cliente, davanti a questa recita, non può controbattere e fare lo stesso, in quanto se vuole che le sue perversioni e i suoi desideri più strani siano soddisfatti deve mettersi allo scoperto in tutto e per tutto, sottoporsi alla nudità morale, consapevole che l’altrə non potrà fare a meno di giudicare, in fondo in fondo, sotto strati di maschere, ogni sua richiesta.

Un altro esempio: lo stupro è forse la massima asimmetria di potere che può raggiungere un rapporto sessuale, asimmetria che non riguarda solo l’atto in sé ma è chiaramente simbolo di un’altra asimmetria strutturale, più radicata e profonda nella società, quella del patriarcato. Ma più banalmente c’è asimmetria anche nei rapporti di coppia, in cui la negazione del sesso viene usata come arma di ricatto, la sua attualizzazione come arma di manipolazione e il tradimento come arma di vendetta o di ripicca.

In tutti questi casi, in misura diversa, il sesso diventa una modalizzazione del soggetto per ottenere qualcos’altro di esterno. L’atto sessuale può quindi ricoprire tutte e quattro le fasi dello Schema Narrativo Canonico ideato dagli studiosi della narratività: Manipolazione (un soggetto può obbligare o persuadere un altro soggetto attraverso il sesso), Competenza (un soggetto può modalizzarsi attraverso il sesso, acquisendo informazioni, capacità, desideri, responsabilità…), Esecuzione (quella che è di solito la performance sessuale, una serie di azioni per raggiungere l’orgasmo, l’Oggetto di Valore), Sanzione (il sesso come premio, il non-sesso come punizione).

Gente molto più in gamba di noi ha affrontato i rapporti tra sesso e potere, sviscerandone la tecnologia e i dispositivi biopolitici, ragion per cui qui non ci inoltriamo nell’argomento, limitandoci a sottolineare la straordinaria facilità con cui l’atto sessuale, che ora possiamo chiamare a tutti gli effetti un atto enunciazionale, crei delle posizioni occupabili dai vari soggetti, via via che la scena si evolve: è nel corso dell’atto che si formano queste caselle vuote, questi ruoli della recita, in cui lə partecipanti si inseriscono di volta in volta. Il ruolo di ciascuno è quindi del tutto arbitrario, ma influenzato dall’esperienza passata, dalla contingenza specifica e dal meccanismo di messa in scena che operiamo di volta in volta, mettendo a confronto il nostro personaggio con quello dell’altrə. Prendere coscienza di questa arbitrarietà, così come della co-dipendenza dellə partner nell’instaurare una situazione narrativa e comunicativa efficace, ci permetterebbe di sfuggire ai cliché della finzione che vuole essere reale, e ci libererebbe dal peso di una mediazione forzata.

Come nelle dinamiche antropologiche del gioco, accettare l’idea che tutte le parti siano attive nella produzione di significato può disilluderci nella nostra ricerca spasmodica di autenticità, a favore di una consapevolezza positiva della simulazione inevitabile che percorre ogni atto sessuale. Il sesso non può essere sempre un satori, ma soprattutto non deve mirare sempre a esserlo: abbiamo l’enorme potere di creare intrecci narrativi con i nostri corpi, di scrivere fiction sulle lenzuola e di modularci nell’altrə e attraverso l’altrə… Perché utilizzarlo per ricercare continuamente l’assenza, il vuoto di senso dato dall’evento, dall’accadere? L’orgasmo non è né svuotamento di senso né un finale programmato, è il ricongiungimento armonioso delle personalità scisse, dell’espressione e della comunicazione.

Costantino Bovina

Una replica a “Sesso e Narrazioni”

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