
[…] A suo tempo, Ruth era stata una figura di rilievo in un famoso gruppo militante che, a seconda delle fonti, Otto sentì definire in varie gradazioni, dal “sovversivo” al “terroristico”. Lei lo chiamava semplicemente “l’Organizzazione”, e sebbene sostenesse di avere preso le distanze, in un secondo momento, dalle sue derive più radicali, non ne rinnegò mai l’operato davanti a Otto.
Si trattava principalmente di azioni di disturbo e sabotaggio, a volte indirizzate verso obiettivi specifici, altre volte più gratuite e immotivate, come semplici atti di ribellione verso gli schemi intrappolanti delle stanze o verso un nemico non meglio identificato. L’Organizzazione, come altri movimenti rivoluzionari, aveva preso piede in varie zone del labirinto grazie al coordinamento dal basso, ma si era rapidamente diramata in sezioni contraddittorie che faticavano a mantenere un collegamento e un’unità di fondo, e operavano quindi su vari livelli in maniere diversificate.
Per quanto riguardava Ruth, il suo reparto si impegnò a lungo per contrastare le Missioni d’Espansione, i confini artificiali all’interno del labirinto e l’appropriazione illegittima di stanze. Non era raro che la donna si lasciasse sfuggire aneddoti su quel periodo, nei momenti di calma. Quando succedeva, le mani correvano in cerca di un appiglio lungo il corpo: i lacci degli scarponi, o le gemme nere legate al collo, o la cicatrice sulla spalla sinistra.
Erano racconti di assalti ai macchinari utilizzati per scavare tunnel e gallerie; di inseguimenti tra le stanze, su cui pendeva sempre l’incognita della casualità con cui le porte scaraventavano prede e predatori nei luoghi più disparati; di rapimenti di sovrani, di sequestri in rifugi ricavati tra false pareti, doppi fondi e controsoffitti costruiti nel tempo. A sentire certe storie, Otto aveva talvolta l’impressione che esistesse un mondo sotterraneo, inserito nel labirinto, una dimensione segreta che si dipanava lungo i bordi, negli interstizi inutilizzati e nascosti, fatta di accordi furtivi e di reti di contatti, di complici strappati uno a uno all’inerzia e al dominio del sistema.
Poi però si guardava attorno e pensava che magari sì, la pace e l’immobilità erano soltanto un’illusione, ma un’illusione talmente potente da cancellare qualsiasi effetto concreto potessero avere l’Organizzazione o le altre realtà devianti dal tracciato.
Ruth, d’altronde, aveva una visione tutta sua del labirinto, una delle più poetiche che a Otto fosse capitato di ascoltare, e quando la esponeva gesticolava senza tregua, gli occhi scuri che le si illuminavano di vita. Era giunta alla conclusione che le stanze non fossero altro che lo specchio di ciò che le abitava e le rendeva vive, ovvero dell’insieme dei viaggiatori e degli stanziali, con tutto il loro apparato di vizi e desideri e abitudini e paure. Quell’ammasso di cubi vuoti era di per sé morto, e senza esseri umani che lo attraversassero o lo popolassero non simboleggiava nulla, non aveva alcun potere. Le persone avrebbero dovuto svegliarsi, rendersi conto del ruolo che ricoprivano e ripensare il labirinto non come una forza immane e astratta, ma come uno strumento in mano loro, da utilizzare per il benessere comune. Ruth credeva nella possibilità, da parte di ciascuno, di stabilire la funzione e l’essenza di ogni stanza, insomma di riarredare e modificare e riconfigurare ogni parete e ogni angolo fino allo sfinimento, e quindi di riappropriarsi della propria capacità di agire. Riconosceva i limiti e le difficoltà pratiche di questo scenario, ma al contempo aveva un’eccezionale fiducia nel cambiamento.
Una fiducia che scaturiva da ogni conversazione le capitasse di intraprendere lungo la strada, con chiunque ritenesse avere bisogno di aiuto. Lo stesso Otto la conobbe in questo modo, mentre sostava esausto in una stanza che si era rivelata un vicolo cieco, con ben tre porte su quattro sbarrate o impossibili da aprire. Ruth l’aveva scambiato per uno dei tanti sciagurati senza speranza, sprofondato nelle braccia della sorte e in attesa di essere salvato da chissà chi, o più probabilmente di essere rastrellato da qualche reclutatore incaricato di trovare manodopera per Missioni d’Espansione, così si era seduta di fianco a lui e lo aveva investito di domande e impressioni sui significati delle cose. Non c’era voluto molto perché si rimettessero in cammino, insieme.
Ed insieme coprirono distanze siderali, zigzagando tra le porte, tra le persone, tra le innumerevoli stranezze contenute nelle stanze, compiendo tragitti talvolta casuali, talvolta prestabiliti, nel tentativo di seguire un filo logico che non esisteva, o se esisteva rimaneva codificato dall’algoritmo mutevole e incomprensibile della struttura. Per quanto Otto e Ruth provassero ad afferrare una chiave di lettura, attraverso mappature ed esperimenti dettati dalla noia, la realtà deludeva ripetutamente le loro aspettative. Ma non per questo si sconfortavano, anzi riuscivano a prendere con filosofia quei fallimenti, li raccontavano ai passanti che incrociavano e ai compagni di viaggio, ci scherzavano sopra e ci costruivano altre congetture, li scambiavano liberamente con profeti e teorici e scienziati presi dal loro arrovellamento sulla natura delle stanze, e a loro volta si divertivano ad ascoltare le favole e i resoconti che si insinuavano nelle serrature, nelle fessure sotto le porte, che correvano da una parte all’altra del labirinto più veloci di qualsiasi viaggiatore, che si diffondevano nei luoghi in cui gli avventurieri sostavano per riposarsi, che contagiavano le menti con la meraviglia e, sotto sotto, con il dubbio su un loro possibile fondo di verità.
I protagonisti di queste storie tramandate non erano mai presenti, e spesso venivano ricordati soltanto tramite soprannomi o tratti salienti; eppure questo non faceva che aumentare il fascino e il mistero che li avvolgeva. C’era naturalmente chi aveva sentito di quello che era uscito dalle stanze, attraverso un pannello scorrevole sul soffitto o qualcosa di simile, e aveva visto l’intera struttura dall’alto, un gigantesco alveare che a seconda delle narrazioni aveva forma e aspetto diversi. Otto e Ruth assistettero al dilagare di questo aneddoto, nei giorni seguenti la sua divulgazione, che nei dintorni causò un’epidemia di arrampicate e buchi nei soffitti e tentativi di evasione. Il risultato, per quel che ne sapevano loro due, fu il solito: un’altra stanza, altre quattro porte, altri sette metri per sette.
Un’altra testimonianza, quasi complementare a questa, riguardava non gli scalatori ma gli scavatori, i quali sembravano aver trovato un fondo definitivo: un livello di stanze dotate ciascuna di una botola sul pavimento, oltre le quali non c’era altro che il buio, il nulla assoluto, certificato dal fatto che alcuni ci erano caduti dentro e non avevano più fatto ritorno.
Otto, per quanto fosse più scettico di Ruth sulle tradizioni orali, notava come questi dicorsi, nella loro natura fantastica, ponessero quesiti concreti: le stanze erano distribuite su più livelli? Perché le porte permettevano un movimento soltanto orizzontale attraverso di esse, e non verticale?
Quando sottopose i suoi quesiti a Ruth, lei ribatté che forse non erano le persone a spostarsi da una stanza all’altra, ma le stanze a variare la propria disposizione ogni volta che qualcuno varcava una soglia. Otto si era ricordato della sua prima festa selvaggia: “A loro piace cambiare…”
Questa ipotesi avrebbe giustificato anche una leggenda come quella del Ladruncolo: un ragazzino “esile esile” e vestito di stracci in grado di perseguitare potenti espansori, intere comunità e innumerevoli viaggiatori con i suoi furti. A quanto pare ci fu persino una vera e propria caccia all’uomo, “in qualche zona più a Ovest di dove ci troviamo ora” dissero ingenuamente a Otto, durante la quale furono rivelati nascondigli e anfratti accumulatisi nel tempo, cantine e tesori, ma nessuna traccia del bambino. Era una delle storie più famose e diffuse, eppure nessuno sapeva chi fosse il Ladruncolo, né come facesse a spostarsi da una stanza all’altra, sfuggendo sempre agli inseguitori. C’era chi sosteneva che avesse trovato una rete di cunicoli e passaggi talmente stretti che solo lui riusciva a farne uso, mentre altri azzardavano addirittura l’esistenza di cripte e catacombe utilizzate dai viaggiatori del passato. Ruth aveva sentito dire da un rivenditore di esplosivi che il piccolo rapinatore aveva accumulato ormai enormi tesori seppelliti chissà dove, grazie ai suoi furti, anche se questa le era sembrata più una strategia del mercante per persuadere i passanti ad acquistare dinamite e intraprendere l’esplorazione.
Otto conobbe insieme a Ruth gran parte di tutto quello che gli capitò di vedere: dalle stanze di specchi a quelle incassate nella pietra grezza, da quelle rifornite di comfort a quelle più antiche e corrose dal tempo, da quelle intoccate a quelle che avevano sopportato il passaggio di un’immensa quantità di girovaghi, e che lo mostravano nei solchi e nelle crepe, negli oggetti e nei disegni sui muri.
Una volta sola lui e Ruth valutarono seriamente di interrompere tutto e di fermarsi. Fu quando incapparono in una zona poco frequentata, caratterizzata dalla fatiscenza e dal silenzio. I pavimenti laggiù erano fatti con lastre di materiali antichi, e le pareti erano attraversate da rampicanti. In particolare, i due avevano individuato una coppia di stanze gemelle collegate solo da una finestrella, dettaglio rarissimo e considerato un lusso che in pochi si potevano permettere. Era un semplice quadrato nel muro, largo appena il giusto per infilarci la testa (cosa che nessuno dei due si azzardò a fare), eppure Otto trovava incredibile il fatto di poter sbirciare nella stanza adiacente senza dover attraversare la porta. Per un certo periodo lui e Ruth rimasero lì, ad assaporare quella novità. Passavano il tempo a lanciarsi cose attraverso il buco, oppure spaventandosi a vicenda, talvolta giocando a una specie di nascondino, oppure esplorando i dintorni, godendosi indisturbati quell’angolo di pace.
Poi, senza nessun preavviso, Ruth scomparve. Fu questione di un attimo, il tempo di attraversare una porta di troppo, e Otto fu di nuovo solo. Era affacciato alla finestra, quando accadde: Ruth stava facendo il giro largo per entrare nella sua stanza, e l’ultima immagine che ebbe di lei fu l’ombra fugace che oltrepassava una soglia. Attese qualche secondo, aspettandosi di rivederla comparire come al solito, ma la donna era andata, proiettata chissà dove da quella stessa porta che era lì, sotto i suoi occhi, ma che riconduceva lui alle stesse identiche stanze, come un giocattolo rotto. Otto pensò che fosse uno scherzo, che lo stesse prendendo in giro, ma dentro di sé avvertiva crescere il panico di un’ipotesi che aveva sempre scongiurato, ma che sapeva essere inevitabile.
Perché già in passato lui e Ruth avevano immaginato di superare un varco e di trovarsi divisi dall’altra parte, in camere separate. A volte si tenevano per mano, fingendo che questo potesse cambiare qualcosa e che li aiutasse a rimanere uniti, ma in fondo la precarietà di qualsiasi rapporto umano faceva parte del gioco. Quando Otto comprese che era successo, un’ondata di frustrazione scaturì dal suo corpo, riversandosi su tutto ciò che lo circondava. Si precipitò per le stanze cercandola, annaspando e sferrando pugni e calci a ogni superficie che si frapponeva tra lui e lei, fino a quando non sfondò la porta di un omone che lo stese con un pugno, lasciandolo incosciente e in lacrime sull’uscio.
Più avanti continuò a cercarla, per un periodo, trascinandosi da una stanza all’altra come un’ombra. Per quel che ne sapeva, Ruth poteva essere morta, o aver scelto consapevolmente di andarsene, e le probabilità di rincontrarsi erano minime. Otto era quasi certo di non aver mai rivisto una stessa persona due volte. Era possibile?
La verità era che, possibile o no, non aveva grandi alternative. Una cupa determinazione s’impossessò di lui, rendendolo sempre più insensibile e cieco a ciò che aveva attorno, trasformandolo in un viaggiatore tenebroso, diffidente verso chiunque, tanto scaltro negli spostamenti quanto sospettoso nelle interazioni. Imparò ad apprezzare gli angoli bui, le stanze vuote, i vagabondi muti e gli emarginati: quelli che passavano inosservati agli occhi dei più, ripiegati sulle proprie ferite personali e schivi nei confronti della massa di viandanti chiassosi. Si impegnò a interrogare le persone giuste, a seguire le tracce, a sgusciare tra la folla scrutando i volti, a fare affidamento soltanto su coloro che potevano tornargli utili per ritrovare lei. Gli venivano forniti contatti, luoghi, punti di incontro, e Otto si dibatteva in quella rete di informatori e approfittatori, gente che si vantava di poter ritrovare chiunque con i propri mezzi, scavando nel torbido sottosuolo del labirinto. Allo stesso tempo cercava un segreto, una chiave che gli permettesse di leggere le stanze, di manipolarle a proprio piacimento e in definitiva di far restituire Ruth al labirinto che l’aveva ingoiata.
Il pessimismo gli crebbe dentro come una malattia, irrigidendolo e rafforzando la predisposizione scettica con cui affrontava il mondo. Disprezzava la maggior parte della feccia umana con cui doveva avere a che fare, soprattutto truffatori e boriosi perditempo che conoscevano un sacco di persone pericolose, ma più di tutto detestava le porte, le maledettissime porte che lo scagliavano di qua e di là con i loro trucchi, facendogli perdere connessioni e tracce e contatti. Quasi che il sistema delle stanze fosse un’entità viva che, per ogni passo in avanti condotto nelle sue ricerche, lo scaraventava al punto di partenza per impedirgli di andare oltre. Sempre più spesso Otto si convinceva che quello stesso meccanismo perverso avesse punito lui e Ruth per la loro felicità, per essersi fermati in un luogo fisso troppo a lungo.
La conoscenza che lo persuase del contrario fu un anziano matematico, una celebrità di nome Münzer, le cui teorie avevano fatto il giro del labirinto. In occasione di una sua conferenza, annunciata nelle stanze attorno da alcuni discepoli, Otto riuscì ad assistere ai calcoli e agli esperimenti che lo studioso aveva condotto nel corso della vita. Questi erano stati fatti solo su scala ridotta, operando su circoli di tre o quattro stanze, ma avevano provato diverse volte la validità di due principi fondamentali, che Münzer stesso spiegò alla platea coi suoi modi nervosi ed eccitati.
Il primo sosteneva che il tempo scorresse diversamente all’interno delle varie stanze, favorendo l’invecchiamento precoce di alcuni contro la quasi immortalità di altri, a causa del suo dilatarsi e restringersi. Tuttavia, disse lo scienziato alzando un indice sottile e rugoso, non era stato ancora rinvenuto nessun criterio secondo cui questo fenomeno avveniva, se non il caso.
Il secondo principio riteneva che fossero i viaggiatori stessi, in certe situazioni, a creare automaticamente le stanze quando varcavano certe porte, come se le stanze sorgessero in base a qualche abilità sconosciuta del viaggiatore. Alla notizia di questa rivelazione, un’ondata di esclamazioni e grida si propagò attraverso il pubblico. Quando la gente si fu placata, restituendo l’attenzione alla voce roca di Münzer, questi non tardò a specificare che entrambe le teorie erano indimostrabili in assoluto: un grave errore strategico, che diede il via libera al caos in tutta la zona. Caos dal quale Otto fu travolto e sopraffatto, mentre cercava di districarsi tra chi voleva prendere d’assalto il gracile matematico, chi cercava di proteggerlo o portarlo in salvo, chi voleva solo fuggire, chi veniva seppellito dalla massa in movimento… Lui, che avrebbe voluto sottoporre a Münzer una serie di domande essenziali per la propria ricerca, finì per perdere di vista quel cranio pelato tra la folla, e in men che non si dica fu spinto via di stanza in stanza e allontanato dalla corrente di persone, completamente impotente.
Non lo rivide più, come c’era da aspettarsi, ma fece tesoro delle sue ipotesi, rimuginandoci sopra e confrontandole con il bagaglio di esperienze ed esempi che aveva ormai accumulato.
Lo allettava soprattutto la seconda, quella sulla nascita artificiale delle stanze. Passeggiando di stanza in stanza, Otto rifletté a lungo sulle sue implicazioni, assillato dai dubbi: forse quel processo seguiva la volontà di ognuno, al momento di aprire una porta? In quel caso Ruth era andata via intenzionalmente, anche se forse non apposta: magari proprio nel toccare la maniglia le era sorto un pensiero di separazione, il quale aveva generato un collegamento con una stanza lontana. Ma allora perché non funzionava così sempre, per tutti? Perché le stanze non erano una macchina dei desideri, o uno specchio dei pensieri collettivi? Era valido solo per alcune persone, dotate di questo potere? Otto pensò al mito del Ladruncolo, alla sua inspiegabile capacità di evadere da una stanza all’altra. O forse succedeva in certe situazioni favorevoli, o in quelle più estreme? Ma tante volte gli era capitato di pregare per qualcosa, prima di attraversare una soglia, persino ad occhi chiusi, e non aveva mai funzionato. Doveva esserci qualcos’altro.
Certo, se quella teoria fosse stata vera, avrebbe spiegato perché nessuno riusciva a uscire dal labirinto: i suoi margini venivano originati e ridefiniti dagli ospiti stessi e dal loro vagabondare, in un’espansione e contrazione continua. I confini si adattavano così ai corpi, chiudendosi su di essi in una morsa inevitabile. In questo senso, le stanze vuote non erano altro che involucri dei pellegrinaggi passati, attraverso cui i fantasmi dei viaggiatori precedenti continuavano a esistere, e le Missioni d’Espansione diventavano in certi casi Missioni di Creazione, generavano spazi nuovi con le loro esplosioni.
Come tutti, Otto alla fine trovò una risposta alla sua angoscia. O forse, come tutti, se ne costruì una propria, un giorno in cui ancora credeva di poter dimostrare qualcosa. Quel giorno la sua mente fece strane divagazioni, in preda a una frenesia sconosciuta che lo disorientava e allo stesso tempo gli donava un’insolita lucidità. Fu con tale lucidità che Otto rispolverò alcuni ricordi di viaggio, talmente vecchi che ormai rimanevano pochi frammenti essenziali, e li analizzò alla luce delle teorie di Münzer. Era come se stesse cercando qualcosa di cui non sapeva nemmeno l’esistenza, mentre saltava da una stanza all’altra come suo solito, spalancando porte per mantenere alta la concentrazione, scivolando tra i passanti come uno spirito.
Fu in questo stato d’animo che gli tornò in mente la stanza primordiale: quella stanza in cui si era svegliato all’inizio di tutto, silenziosa e calda e accogliente. Ricordava la sensazione che aveva provato al suo interno, l’urgenza di uscire malgrado non ci fosse nessun bisogno o necessità che glielo imponesse. E fu in quell’istante, mentre con l’indole dell’archeologo disseppelliva la sua primissima esperienza e la osservava con occhi del tutto diversi, mettendola a confronto con il proprio presente e con le teorie di Münzer, e nel frattempo si rigirava nella tasca sinistra una collana di gemme nere, non quella di Ruth ma una identica che aveva acquistato da un’indovina mezza cieca in un mercato itinerante, ecco che se la rigirava in tasca e pensava a quell’episodio che aveva dato inizio a tutto, ora che si trovava in una stanza come tante altre, sette metri per sette, quattro porte, un paio di orfani che disegnavano sul muro e un viaggiatore che sostava nell’angolo, e attorno a lui orbitavano altre stanze con altre persone sole che parlavano e camminavano e cercavano un senso e forse creavano luoghi inesistenti unicamente con la loro presenza, fu proprio in quell’istante normale, banale, ma anche pervaso di una straordinarietà nascosta e impalpabile, un istante che dal suo punto di vista durò tantissimo, il tempo di appoggiare la mano sulla maniglia di fronte a sé e realizzare che questa volta era diverso e girare comunque la maniglia e aprire la porta per un automatismo consolidatosi negli anni e trovarsi dall’altra parte, fu in quell’istante che Otto, come tutti, ritornò infine nella camera vuota e buia, e realizzò che forse era stato, in ultima istanza, finalmente padrone del proprio destino, chissà che non avesse richiamato a sé quel nulla iniziale con la forza della mente, ma in ogni caso non importava più, lo sapeva, perché nell’oscurità non avrebbe più ritrovato le quattro porte, e in fondo andava bene così: il viaggio era finito. Era giunto il momento di riposare.
Costantino Bovina