
Partimmo non appena Josh ebbe dato l’ultimo esame, Storia delle dottrine politiche. Era la terza volta che
ci sbatteva la testa contro: io supplicavo Iddio che fosse finalmente riuscito a non litigare con il
professore, “un sessantottino dalle prospettive limitate”. Un’altra testata andata a vuoto e il grugno del
mio amico avrebbe tenuto alla larga qualunque automobilista. Io già ci immaginavo, col pollice alzato per
ore sul ciglio di una provinciale allagata dal sole, senza cibo né acqua… Le persone imbronciate non
piacevano a nessuno.
Caricammo i bagagli (una sacca di tela, due zaini e due sacchi a pelo) sul pick-up di un’amica diretta
verso il mare; per tutto il tragitto alternò raccomandazioni da mamma a considerazioni sconsolate sulla
nostra follia. Ci facemmo scaricare al primo Autogrill promettendo di chiamarla, se qualcosa fosse andato
storto. L’idea utopica di cominciare l’autostop fin dall’uscio di casa era naufragata in fretta, così avevamo
deciso quantomeno di raggiungere un’autostrada. L’obiettivo finale era scritto a grandi lettere sui nostri
cartelli: la Città. Perché proprio la Città? Be’, perché era il centro di tutto, l’Esperienza Da Fare Nella Vita
per eccellenza; un bagno nel presente che con le sue attrazioni, i suoi vizi, i suoi segreti e le sue
esagerazioni non era altro che il mito della gioventù, incarnato e racchiuso tra labirinti e strade scintillanti.
Quello della partenza era un pigro e torrido pomeriggio di giugno con poche, preziose folate di vento, che
facevano oscillare il cappello da pescatore di Josh. Noi due eravamo ancora puliti, avevamo un aspetto
sano e un bel sorriso stampato in faccia (dottrine politiche era andato benone). Non ci volle molto prima
che si avvicinasse una donna vestita da maestra, la manina del figlio e le chiavi della macchina strette in
pugno: “Posso aiutarvi in qualche modo, ragazzi?”
“Stiamo facendo autostop.”
La donna osservò i cartelli appesi con lo scotch alle bretelle degli zaini, indecisa. Josh si era tolto il
cappello da pescatore e faceva ciao al bambino.
“La Città, eh? Sono un bel po’ di chilometri…”
“Eh già! Ma a noi basterebbe anche solo avvicinarci alla meta di qualche passo…”
“Capisco.”
Gli occhi saettavano lungo i vestiti e i bagagli, nel tentativo di decifrare la nostra anima e le nostre
perversioni più oscure.
“Siete fratelli?”
Guardai il mio compagno di viaggio: castano chiaro, alto dieci centimetri più di me, senza l’ombra di peli
sul volto e con la carnagione bianchissima, bianca quasi quanto i resti della crema solare sugli zigomi. Io
all’epoca ero più o meno la copia di Aladdin della Disney, ma più barbuto. Fortunatamente quello che
cercavamo nella donna di fronte a noi non era la perspicacia, ma la generosità. Pensando comunque che
fosse meglio assecondarla, annuii: magari da fratelli le avremmo suscitato più empatia, o chissà che. E
come per magia, le parole successive furono: “Vado a prendere un caffé e torno. Aspettatemi davanti alla
Toyota laggiù.”
Non fu un passaggio entusiasmante: la donna parlava poco, preferiva rimanere concentrata sulla guida e
sugli innumerevoli bisogni del figlio. Tutto quello che ci raccontò fu che stava andando a depositare il
bimbo dai nonni, così da avere qualche giorno libero per sé. In compenso, una volta stabilito che non
volevamo né rapirle il marmocchio né provare a rapinarla, ci ricoprì di domande sul motivo del nostro
viaggio. Di tacito accordo io e Josh decidemmo di omettere certi dettagli compromettenti, cosicché nel
complesso venne fuori un quadro abbastanza accettabile: due ragazzi stanchi della propria limitata realtà
provinciale, affamati di vita, desiderosi di esperienze e pronti a mettersi in gioco per capire come
funzionava il mondo là fuori. Volevamo capire cosa lo rendeva magico e cosa lo rendeva futile, cos’era
lecito sognare e cos’era frutto solo di storie utili a convivere con la propria quotidianità.
Chissà, forse lei avrebbe potuto raccontarci delle delusioni e delle idiosincrasie che ciò comportava,
oppure ammonirci sui rischi che si celavano fuori da qualsiasi disegno prestabilito, ai margini del foglio…
Fatto sta che, per un motivo o per l’altro, non espresse niente di tutto questo: forse non sapeva di cosa
stessimo parlando, o forse aveva vissuto l’intera vita tra quei margini.
Ci fece scendere appena prima di lasciare l’autostrada, in un’area di sosta una trentina di chilometri dopo.
Eravamo appena partiti, eppure mi sentivo come se non fosse cambiato niente: stessi discorsi, stesse
dinamiche, nessun brivido di novità. Quando lo accennai a Josh, rimproverò il mio bisogno di analizzare
continuamente la situazione, senza mai riuscire a viverci realmente dentro. Probabilmente aveva ragione,
ma non glielo dissi.
Ai tavolini dell’area di sosta incontrammo un vecchio scacchista slavo che sfidava la gente scommettendoci sopra dei soldi. In due ore, non lo vidi mai perdere. In compenso, a un certo punto
rischiò di fare a botte con una banda di giganti russi che si ostinavano a giocare tutti insieme, suggerendo
le mosse all’unico che aveva pagato la quota. La vicenda si risolse con un incredibile scacco matto del
vecchio, dopo la quale i russi insistettero per offrirgli da bere al bar. Una scena di sportività toccante, che
i vagabondi lì attorno premiarono con un applauso.
Il secondo automobilista, conosciuto un paio d’ore dopo in quello stesso parcheggio, fu forse il più
interessante e inquietante del viaggio (pareva che le due cose andassero di pari passo).
Era un abbronzatissimo sessuologo hippy che tornava da un seminario tropicale di masturbazione
dedicato a donne che non riuscivano ad avere orgasmi. Il suo furgoncino era rigorosamente fedele allo
stereotipo: un misto tra il “Mistery Machine” di Scooby-Doo e il Volkswagen di Charles Manson.
L’interno era abbastanza lercio, e la pelle e i vestiti rimanevano appiccicati a certe superfici più del
dovuto. Il tono di voce dell’autista era il più caldo, sexy e pacato che avessi mai sentito; le sue dita nodose
accarezzavano la leva della frizione ad ogni cambio, e quando lui rideva tiravano amichevoli pacche sulla
coscia del povero Josh, come se l’uomo si fosse confuso con la propria. Il mio amico era così disperato
che si mise lo zaino sulle gambe, per proteggerle.
Io nel frattempo vedevo peni ovunque. Peni-stickers attaccati ai finestrini, un mucchio di vibratori a
forma di pene che facevano cucù dal cruscotto, un pene-portachiavi che penzolava dallo specchietto
retrovisore assieme a un paio di collanine etniche, e che all’inizio scambiai per un crocifisso… Non che
tale abbondanza erotica mi disturbasse più di tanto, sia chiaro: non volevo apparire un pudico bigottone
agli occhi dello specialista. Mi sforzavo soltanto di guardare il paesaggio con noncuranza, fingendo di
avere a che fare con roba del genere tutti i giorni. Il mio dubbio costante, piuttosto, era che il sessuologo
hippy ci avesse preso su perché sperava di combinare qualche zozzeria nel retro del camioncino; dubbio
seguito a ruota dal senso di colpa per averlo pensato, e da svariati tentativi di non entrare in contatto con
le macchie ambigue che scoprivo sui sedili.
Il viaggio intanto procedeva dritto verso la meta, la Città: l’autostrada si srotolava tra le pianure davanti a
noi come un nastro grigio, e il tramontare del sole iniziava a tingere il cielo di fresco. Finalmente lontano
da casa, iniziavo a sentire quel fascino dell’esotico tanto ripudiato da Lévi-Strauss, e d’altra parte faticavo
a trovare cambiamenti concreti attorno a me: la realtà faceva già il proprio corso, svilendo e sotterrando
ogni mia fantasia avventuriera.
Il sessuologo hippy nel frattempo ci stava raccontando del suo seminario, di come aiutasse le sue clienti
attraverso dei “ritiri di meditazione orgasmica”. In pratica accarezzava clitoridi con guanti di plastica, le
faceva sedere nude in cerchio per giocare con dildi e bilancieri vaginali, oppure offriva creme stimolanti,
trattamenti con testosteroni, iniezioni di plasma o piastrine nella vagina… Parlava ormai da ore, e ad ogni
occhiata o battuta lasciva io temevo sempre di più che ci proponesse di trascorrere la nottata a bordo.
Stavo giusto sgomberando la mente dalle immagini di belle donne inappagate per trovare una scusa buona
e scappare da lì, quando Josh fece l’unica cosa che ci avrebbe potuto salvare: iniziò a discutere.
“Non pensa che tutto questo sia un po’ controproducente?” Interruppe l’uomo, nel bel mezzo di una
spiegazione su cosa fosse il bilanciere vaginale. Per poco quello non sbandò.
“Come sarebbe a dire?”
“Insomma, non pensa che tutte queste misure alla fine abbiano proprio l’effetto opposto? Che facciano
sentire le donne sbagliate, o inadeguate, o in qualche modo da curare? Dopo tutti i suoi discorsi, fa
dubitare anche me delle mie funzioni…”
Il sessuologo hippy arricciò il naso in maniera indignata, ma il suo tono rimase pacato come al solito:
“Personalmente, non faccio nulla di tutto questo. Il mio approccio è sempre collaborativo… Anche se
talvolta un po’ malizioso.” Occhiolino nella mia direzione. “Ciò di cui mi occupo in questi seminari è di
dare alle donne ciò che per noi uomini è scontato: il piacere, e di conseguenza il potere, nell’atto sessuale.
Come vi dicevo, i cicli di masturbazione collettiva permettono di…”
“No-no-no, questo mi è chiaro.” Josh si dimenò tra i bagagli per sedersi più dritto, una manovra che
faceva sempre quando il discorso si animava. “Quello che non capisco è: la necessità che spinge queste
donne a venire da lei, la loro convinzione di avere un problema insomma, non è forse creata ad hoc
dall’industria del sesso stessa? E dalla nostra società patriarcale?”
In quel momento ero convinto che lo sconosciuto ci avrebbe schiaffeggiato con un enorme dildo tirato
fuori da chissà dove, o al limite che ci scaricasse sul ciglio dell’autostrada, ma allo stesso tempo
ringraziavo la sorte per avermi dato un compagno di viaggio così politicizzato da risultare antipatico a
tutti, all’occorrenza.
“Voglio dire, chi ha deciso che non avere orgasmi costanti, o persino non averne affatto, sia un problema?
Forse siamo noi uomini, insicuri e bisognosi di dominare, a pretendere che le donne siano eccitate a dovere, e soprattutto che ce lo dimostrino concretamente… Insomma, alla fine è un cane che si morde la
coda.”
Le seguenti due ore passarono nel silenzio, interrotto dallo sbatacchiare del pene-portachiavi contro le
collanine etniche davanti a noi. L’uomo era di umore tenebroso, ma il suo lato hippy-umanitario dovette
trionfare sul lato sessuologo-infuriato, perché ebbe la clemenza di lasciarci davanti a un motel sulla
provinciale, giusto in tempo per la cena. Niente creme stimolanti in omaggio.
Il nostro Piano Di Bilancio prevedeva di cucinare il cibo portato da casa con un fornelletto da campeggio,
ma scoprimmo subito di aver comprato cartuccia e valvola incompatibili. Seguirono maledizioni contro
Decathlon, contro il commesso sottopagato di Decathlon e contro la nostra idea di andare a comprare tutto
il necessario la mattina dopo una festa a dir poco gravosa.
Josh provò comunque a convincermi che dando i nostri ingredienti alla cuoca del motel avremmo potuto
ottenere uno sconto sul piatto che ne sarebbe uscito fuori, ma alla fine si rassegnò all’idea che fosse una
stupidaggine sia sul piano economico che su quello culinario. Mangiammo una minestra di ceci e dello
stufato piuttosto sospetto, in compagnia di alcuni soggetti da spaghetti western e un paio di prostitute. A
una di loro mancava una gamba, e a entrambe la clientela per pagarsi la cena. Mi venne la tentazione di
offrire un po’ di minestra, o di chiedere se avessero mai avuto almeno un orgasmo, ma Josh interruppe i
miei pensieri: “Quello non voleva proprio saperne di smollarci, eh?”
“Un gran peccato, che fosse così strano. Un vagabondo così deve aver visto una bella fetta di mondo.”
“Magari sì, ma sicuro non l’ha capita.” Pausa per buttare giù della birra annacquata. “Secondo me è
soltanto l’ennesimo vecchio hippy che vive di ricordi. Cerca di reinventarsi in una società che non lo
vuole più.”
“Dio mio, quanto cinismo.”
“Lo so. Non li sopporto quelli così.”
“Così come?”
“Che non hanno le palle di vivere nel presente, che si nascondono dietro i preconcetti e dietro le
circostanze.”
Il giorno dopo decidemmo di incamminarci un po’ più avanti, per evitare di essere confusi con la gente del
posto: saremmo stati troppo poco rispettabili agli occhi degli automobilisti perbene (a dire il vero, Josh
specificò “borghesi”). Non fu affatto una buona idea: finimmo impantanati in una specie di palude a lato
della strada, inzaccherandoci tutti i vestiti e gli zaini. La guida per autostoppisti che avevo comprato
(quella vera, non galattica) suggeriva di essere, o almeno apparire, sempre puliti e asciutti davanti alle
macchine di passaggio, a meno che non volessimo morire di fame seduti su qualche guardrail. Magnifico.
Perdemmo metà della mattinata a cercare di uscire da quelle dannate sabbie mobili: da un lato c’era una
giungla in stile Conrad, dall’altro il rischio di essere investiti dalle macchine che sfrecciavano a tutta
velocità, quindi non ci restava che proseguire in avanti sperando che finisse presto, barcollando e
inciampando, sempre col pollice alzato. Come per tutto il viaggio, la nostra fortuna fu quella di fare pena
a qualcuno.
In particolare a due punk a bordo di un camper, annunciati dalla musica techno prima ancora che li
vedessimo in lontananza. Lei era una spagnola di origini cilene alta sì e no un metro e cinquanta, guidava
come un pilota da corsa (ma in maniera impeccabile) e aveva diversi tatuaggi dallo stile realistico sulle
braccia e sulle gambe. Le piacevano gli anime e il cyberpunk, e inglobata da stivaletti New Rock e dalle
canottiere XL aveva un’età indefinibile tra i trenta e i cinquant’anni. Più tardi scoprimmo che ne aveva
quarantadue, che era ricercata in Francia per guida sotto anfetamine, che aveva precedenti legali in alcune
piantagioni di cannabis nel sud della California, e che ci si era presentata con un nome falso (Anita).
Il suo compagno, Arturo, aveva vent’anni di meno, era scappato di casa giovanissimo, quando il padre era
scomparso e la madre aveva iniziato a bere, e aveva sempre fatto lavori stagionali, tra cui l’allevatore di
ostriche, lo spazzaneve e il fonico di palco in alcuni tour. Nella playlist di viaggio alternava la techno con
il jazz, rollava una sigaretta dietro l’altra e la sua voce, a metà tra quella di Pippo e quella di Homer
Simpson, era perfetta per gli sketch comici che improvvisava.
I due ci presero subito in simpatia, anzi quasi ci fecero festa quando accettammo di salire sul loro camper.
Capivano la nostra lingua e comunicavano abbastanza bene, soprattutto grazie all’esuberanza e a una forte
capacità espressiva. Nel retro c’erano anche due cani, enormi ma scheletrici, che si chiamavano come i
due fratelli di “Fullmetal Alchemist” e ogni tanto si affacciavano sui nostri sedili per sbavarci
allegramente sulla spalla.
Anita e Arturo volevano cercare lavoro come braccianti in una regione verso la Città, così trascorremmo
insieme tutta la giornata e metà della seguente. Finalmente io e Josh potevamo discutere dell’avventura
con qualcuno che ci avrebbe compreso, pensai. Eppure, ogni volta uno di quei due scoppiati se ne usciva con una storia così estrema, o assurda, o divertente che i nostri timidi tentativi di presentazione non
reggevano il confronto, e restavamo ad ascoltare estasiati.
Ritenni che fosse molto meglio così: uno dei motivi per cui ero partito era l’insoddisfazione per la gente
che mi circondava a casa, per i rapporti traballanti che cercavo di tenere in piedi ogni giorno, per le
situazioni che risucchiavano tutte le mie energie e restituivano quasi nulla in cambio. In quel periodo di
vuoti, noie e incertezze avevo davvero bisogno di gente che mi facesse pendere dalle proprie labbra con
racconti mitici, gente che mi aprisse nuove prospettive e mi offrisse idee stimolanti da cui prendere
ispirazione, perché non era possibile che fossi già stanco della vita a soli vent’anni.
D’altra parte era frustrante vedere che tutto ciò che avevo fatto, indubbiamente molto di più rispetto ai
coetanei che mi circondavano, fosse così lontano da quello che avrei voluto. Arturo e Anita, con le loro
storie di incontri, coincidenze, fughe e disavventure, mi facevano sentire come l’adolescente immaturo
che ancora cercavo di scrollarmi di dosso.
Quella sera la passammo sotto una tenda sbrindellata presa in prestito, montata alla bell’e meglio in uno
spiazzo erboso tra l’autostrada e i campi di granturco. I cani si ruzzolavano e facevano la guardia, a lato
del camper. Attorno alla torcia, provai a parlare con un Josh semi-esausto, intento a fare su una canna.
“Ehi Josh.”
“Mmmh.”
“Quale credi che sia il fine ultimo di quello che stiamo facendo? Avventure e sesso a parte, intendo.”
Silenzio per un po’.
“Vivere tutto, credo.”
“D’accordo, ma perché?”
“Per poter dire di averlo fatto.”
“Ok.” Osservai le sue dita esperte, mentre arrotolavano un biglietto del bus per fare il filtro. “Quindi si
tratta solo di una collezione di esperienze, di una cosa fine a se stessa?”
Josh smise di rollare, mi fissò. “Si tratta di crescere. Di diventare belle persone, interessanti e ricche a
livello umano.”
“Ma interessanti per chi?”
“Oddio, sembri la mia accidenti di sorellina, con tutte queste domande a catena… Hai presente quei due
laggiù, nel camper? Ecco, se mai dovessi diventare maturo come loro, allora sarò soddisfatto di me. E la
Città è il posto ideale per questa trasformazione.”
Aprì la zip della tenda e venne inghiottito dalla quiete notturna. Lo seguii a ruota, incespicando sulle
scarpe fuori dall’uscio. In quei primi giorni, pensavo ancora che Josh fosse la persona ideale con cui
intraprendere il viaggio, perché malgrado tutte le differenze caratteriali che intercorrevano tra di noi,
eravamo animati dalla stessa fame di vita. Non mi immaginavo che quelle differenze fossero invece così
determinanti, così essenziali per poter delineare le rispettive strade future: l’avrei capito solo in seguito,
una volta arrivati alle porte della Città. Per il momento, mi limitai a dirgli una cretinata filosofica tipo:
“Ammiro la sicurezza con cui abbracci questa insicurezza”, o qualcosa di altrettanto stucchevole, e se non
ricordo male lui ribatté: “Non è sicurezza, è solo positività. A volte devi rinunciare a cercare il senso delle
cose belle che ti succedono, e accontentarti di acchiapparle prima che svaniscano.”
Dopodiché fluttuammo nelle spirali di fumo e nei discorsi lasciati a metà, e le nostre chiacchiere senza
meta vagavano per sentieri improvvisati come viandanti di altri tempi, e non erano poi così diverse dal
rumore costante dei grilli, disatteso in una notte buia come un’altra.
Il giorno successivo salutammo Anita e Arturo, per poi rituffarci nel feroce viavai delle macchine sotto il
sole di mezzogiorno. Il caldo giocava a nostro sfavore, picchiando sulle carrozzerie di metallo e
scoraggiando chiunque dal rinunciare, anche solo per pochi istanti, al vento che entrava dai finestrini
abbassati. Un paio di camionisti rallentarono, ma solo per squadrarci con curiosità: ormai eravamo
abituati ad essere esposti come animali da zoo, sotto gli sguardi indifferenti di tutti. Faceva parte del
gioco.
Sprovvisti di fornelletto, tiravamo avanti solo con alcune confezioni di cibo in scatola e della verdura
cruda. Ci mancavano anche le posate, così intagliammo l’interno di due carote con un coltellino svizzero e
le utilizzammo come cucchiai. Fu una trovata tanto geniale quanto indispensabile.
Ogni tanto facevamo piccoli pezzi di strada a piedi, giusto per non innervosirci sempre nello stesso punto.
Chiacchieravamo per ore, sentendoci come i due protagonisti di quello spettacolo di Beckett. A un certo
punto salimmo sul catorcio di un contadino alticcio, nel cassone sul retro in cui di solito sistemava il
fieno, ma dopo che una frenata rischiò di scaraventarci in pasto al traffico, preferimmo scendere e
aspettare qualcuno il cui tasso alcolemico fosse inferiore a 3 g/l, o giù di lì.
Furono tre ragazze a salvarci, verso sera. Tutta la frustrazione per aver perso mezza giornata di viaggio svanì: erano meravigliose. Stavano andando in vacanza in un campeggio poco oltre la Città: io e Josh ci
mettemmo d’impegno per ottenere un passaggio più lungo, così da passare la notte insieme.
In men che non si dica, ci ritrovammo tutti accampati attorno a un falò improvvisato, in una sterpaglia che
separava la strada dalla costa. Bruciava la carne e bruciavano canne. Era uno degli ultimi tratti in cui
avremmo visto il mare, perché per raggiungere la Città bisognava girare verso l’entroterra. La più piccola
delle tre, che scoprimmo essere la sorella minore di quella con cui ci stavo provando io, strimpellava Rino
Gaetano con la chitarra, accompagnando i nostri flirt con un lodevole altruismo. Io e Josh non riuscivamo
a capacitarci di quelle tre creature, così diverse dalle ragazze che avevamo conosciuto, così spigliate e
noncuranti pur senza il bisogno di interpretare una parte. Eravamo talmente orgogliosi di averle
conquistate, da non renderci conto che in realtà erano loro le predatrici, e noi le prede.
Originarie della Città, provarono a ridimensionare le nostre aspettative stellari su di essa. Ottenero il
risultato opposto: ormai la tappa finale era diventata una sorta di luogo mitologico, e ai nostri occhi il suo
fascino magnetico si estendeva anche alle tre campeggiatrici. Più avanti, scoprii che Josh finì a letto sia
con la cacciatrice che l’aveva puntato inizialmente (caschetto, piercing al naso e canottiera dei Bulls), sia
con la ragazza più piccola, la chitarrista. In compenso però perse il cappello da pescatore; probabilmente
ancora adesso il cimelio è incastrato da qualche parte, abbandonato tra gli scogli lì vicino, in attesa di
tornare dal suo padrone.
Per quanto mi riguarda, quell’incontro fu quello che più di tutti mi aprì gli occhi sul senso del viaggio, o
sulla sua mancanza. Tutt’ora credo di aver fatto un grosso torto alla terza campeggiatrice, sostituendola
con l’idea che volevo avere di lei, con il simulacro che le avevo inconsciamente costruito attorno. Mi
sentivo quasi infastidito dal fatto che non fosse poi così interessante come persona, e quando me ne resi
conto feci di tutto per ignorare la cosa, per mantenere in vita l’impressione iniziale; come se non potessi
accettare che una ragazza proveniente dalla Città non fosse all’altezza delle previsioni. C’era tanto
egoismo, nel sesso che facevo a quell’età.
Nei giorni successivi, poi, mi domandai se in fondo non avessi eretto lo stesso simulacro attorno all’intero
viaggio: avvertivo un senso di insoddisfazione generale che non riuscivo a strapparmi di dosso, e che
faticavo a giustificare altrimenti.
Tra un automobilista e l’altro, tra un passaggio e l’altro, tra un paesino e l’altro io e Josh sperimentammo
davvero di tutto. Cantammo a squarciagola dal tettuccio di una limousine, rischiammo un incidente in
sidecar; ci ubriacammo in trasferta in pullman con una squadra di softball, ottenendo due biglietti gratis
per una partita a cui non andammo; ci nascondemmo in una barchetta agganciata al retro di una station
wagon, senza ritenere necessario avvisare i proprietari; salimmo su un trattore e su un camion pieno di
frigoriferi; giocammo a poker con dei mezzi criminali vincendo una discreta somma di denaro,
probabilmente riciclato; ci facemmo offrire una cena da un famoso poeta afroamericano, incontrato dopo
che lo aiutammo a uscire dal bagno di un Autogrill in cui era rimasto bloccato; tagliammo la legna per un
contadino, in cambio di riparo dalla pioggia per una notte; provammo varie droghe, oltre che l’assenzio, il
narghilé e la pipa; trovammo da ridire con alcuni operai che stavano facendo dei lavori su un ponte, e
prima di invertire la marcia scambiammo un paio di cazzotti con i più presuntuosi (Josh si scheggiò pure
un dente); imparammo parolacce in francese, russo, albanese e tedesco; ci facemmo leggere i tarocchi da
tre persone diverse, tutte donne; mangiammo poco e male, alle ore più improbabili, continuando a usare le
carote come posate; imparammo la Salsa e il Cha cha cha ai balli di paese. Ma la patina d’insoddisfazione
restava lì, rendendo opaca ogni cosa.
Ormai il miraggio della Città annegava nella tempesta di vita in cui io e Josh eravamo immersi, assieme a
tutte le mie certezze. Ero esausto, frastornato, invecchiato di mille anni, e allo stesso tempo mi sembrava
che nulla mi avesse cambiato davvero. Volevo di più, sempre di più, eppure ripudiavo ogni evento in
quanto deludente, in quanto vuoto. Continuavo a viaggiare nella speranza che la tappa successiva fosse
quella giusta, quella che mi facesse dire: “Wow, eccola lì, la vera essenza delle cose.” Mi sembrava di
accumulare storie per un pubblico inesistente, come un artista che abbelliva la propria opera con
pennellate bizzarre, senza senso. Da un lato mi sentivo come in quella barzelletta dei due matti che
scavalcano cento cancelli per scappare dal manicomio, ma si stancano al novantanovesimo e tornano
indietro. Dall’altro, ero paralizzato dal terrore che la Città fosse soltanto l’ennesima aspettativa mancata.
Uno degli ultimi giorni, capii di non poter più proseguire oltre. Quando lo realizzai, io e Josh stavamo
passando una mano di vernice sulla facciata di un ostello dimenticato da Dio: avevamo quasi finito i soldi,
e ci ripagavamo in quel modo una nottata e una colazione. Eravamo in bilico su delle scale a pioli
scricchiolanti, e tra un davanzale e l’altro decisi di parlargliene.
“Ehi Josh.”
“Mmmh.” “Ti ricordi quella conversazione che abbiamo fatto, appena partiti? Quando ti ho chiesto quale fosse lo
scopo del viaggio?”
“Ah-ha.”
“E tu mi hai risposto che era per crescere, diventare persone migliori eccetera?”
“Non ti senti migliorato neanche un po’?”
“A dire il vero, credo di aver sbagliato alcune cose.”
“Del tipo?”
“Non so, io sono uno che tende a fantasticare, spesso mi creo delle aspettative enormi e rimango fregato,
però…”
“Aspetta, qui ho finito.” Scivolò giù per i pioli, risistemò la scala alla mia destra e risalì in cima,
ricominciando a pitturare. “Dicevi?”
“È come se ogni cosa fosse più bella quando la senti raccontare dagli altri, però poi quando la vivi in
prima persona la trovi deludente e grigia e spoglia. Non so se sia colpa dei film, o dei libri, o del mondo
che per com’è oggi ha perso quasi ogni traccia di freschezza e di poesia, ma per me è tutto davvero
frustrante, ecco. Se la realtà fosse più bella e le storie su di essa un po’ più brutte, probabilmente saremmo
tutti più sereni.”
Quel giorno, l’ultimo giorno che passammo insieme, Josh fece un lungo discorso a proposito dell’industria
culturale, sostenendo che il ruolo di chi ci imbottiva di racconti e narrazioni fosse quello di creare storie
talmente belle da convincerci che, alla fin fine, era meglio leggerle, guardarle o ascoltarle piuttosto che
agire e costruirle in prima persona. Secondo lui, era tutto un discorso di potere: una massa di spettatori era
più docile di una massa di protagonisti.
Fu un gran bel discorso, ma io all’epoca avevo altro per la testa, e lui non riuscì a capirlo. Avevo i miei
vent’anni e quella fame di vita inappagata che non sapevo come gestire, avevo dei sogni per il futuro e
delle esigenze su come dovesse essere la mia esistenza, avevo delle idee molto confuse a proposito della
felicità e della realizzazione personale. Guardandomi indietro, alla luce di tutto questo, quel giorno pensai
di aver sbagliato dove cercare. Potevo spingermi ai margini del foglio quanto volevo: non avrei mai
trovato le mie risposte là fuori. Forse Josh ci sarebbe riuscito, continuando a salire e a scendere e a
spennellare fino allo sfinimento, ma io avevo bisogno di fermarmi, di riposare, di esplorare verso
l’interno. Davanti a quell’ostello, a pochi chilometri dal traguardo, individuai finalmente l’enorme
paradosso che mi respingeva lontano dalla Città come una calamita. Fino ad allora eravamo convinti che
la maturità, la pace interiore, avessero a che fare soltanto con il vissuto o con le esperienze. Che non
dipendessero da uno stato d’animo, ma che potessero essere trovate come si trova l’oro, scavando qua e là,
in cerca di significati da attribuire alle cose. Non ci era neanche passato per la testa che bisognasse dare
un significato prima di tutto a noi stessi. In viaggio verso la Città, avevo tralasciato la parte essenziale del
problema: io e Josh non sapevamo chi eravamo, né dove stavamo andando.
di Costantino Bovina