
L’ultima sera d’estate avevo una festa a sorpresa: un mio amico partiva per Oxford, Lettere
Classiche. La festa serviva più che altro a far metabolizzare l’evento a noi altri fannulloni, in realtà.
Lui non lo avevo mai visto così radioso…
“Sorpresaaa!”
Oxford. Non riuscivo a capire come mi sentissi. Forse solamente inutile: l’Università sembrava
piccola e insignificante, in confronto ai viaggi e ai progetti cosmopoliti non solo del festeggiato, ma
di tutta quella gente.
Perlopiù c’erano amici di vecchia data, persone legate a un passato da cui volevo prendere le
distanze. Un bagaglio decisamente troppo ingombrante, perché potessi infilarlo in una valigia e
portarlo in giro per l’Europa o per il mondo, come pianificavano di fare loro (con una leggerezza
che non potevo fare a meno di ammirare).
Quell’estate spezzava la nostra vita in due, con un prima dai confini netti e un dopo ancora da
definire… Eppure sembrava scivolare via sullo sfondo, un intervallo tra il primo e il secondo tempo
a cui nessuno si era degnato di prestare troppa attenzione. Il viaggio di laurea, soprattutto, si era
rivelato una trovata inefficace per affogare quel senso di precarietà di cui tutti, mentre
chiacchieravamo di periodi Erasmus, volontariati nelle ONG, pizzerie da aprire in Australia, Inter-
rail nell’Europa dell’Est, avvertivamo le spinte entropiche.
Per il resto, alla festa pareva di essere immersi in una puntata di qualche sit-com datata: il buffet da
centro sociale, messo insieme con il solito “Ognuno porta qualcosa”, l’impianto stereo che pompava
musica New Wave e indie fino in strada, l’odore di erba denso come la nebbia fuori e la gente che si
baciava negli angoli di quell’enorme appartamento… Tutto contribuiva a un clima surreale saturo di
addii, di nostalgia felice. E poi c’erano un sacco di storie da raccontare. Le storie erano la mia parte
preferita, alle feste, e l’estate le alimentava come legna sul fuoco: settembre grondava di aneddoti su
falò abusivi, autostop improbabili in mezzo al nulla e ipotermie causate da sbronze in giro per
strade addormentate… Anche se spesso era soltanto una gara a chi riusciva a prevalere con il
racconto migliore, la vacanza migliore o l’esperienza migliore.
La mia “esperienza migliore” di quella sera era il lavoro, la ragione per cui ero arrivato un paio
d’ore dopo. La festa era già entrata nel vivo, e faticavo a inserirmi nell’ecosistema tipico delle serate
venute bene, poco inclusivo coi ritardatari. Gli sconosciuti avevano già fatto amicizia tra loro,
mentre una buona metà degli invitati rimaneva per me di provenienza oscura. Le storie più belle
erano già state raccontate, così mi dovetti accontentare di qualche riassunto privo di sentimento,
accennato qua e là. La sensazione di essermi perso qualcosa, qualcosa a portata di mano se solo
fossi stato libero come gli altri, era a dir poco frustrante.
Ma forse è stato meglio così: avrei sicuramente perso, nella gara per stabilire chi aveva visto i posti
più esotici, chi aveva conosciuto più gente, eccetera.
Io lavoravo, sì. Era l’unica cosa che mi teneva ancorato a una parvenza di routine, in quel periodo di
passaggio dal triennio alla Magistrale, in quel flusso di eventi di cui facevo parte ma che non
riuscivo minimamente a controllare. Mi sentivo soverchiato da forze esterne troppo potenti per
essere imbrigliate. Lavorare mi schiariva le idee, certo, ma contemporaneamente mi strappava via le
mie ultime settimane di libertà, alimentando lo stesso flusso che non mi dava tregua, l’assenza di
tempo da cui cercavo di evadere.
C’era questo tapis roulant, alla festa, che simboleggiava perfettamente la mia situazione. Io ero con
questi due miei amici, un po’ più piccoli di me e un po’ più a loro agio nei propri panni: apparivano
ben indirizzati verso la vita adulta e sempre rilassati, come se non realizzassero ancora del tutto la
portata della faccenda. Portavano entrambi i capelli lunghi, annodati sulla nuca con degli elastici
colorati. Il primo parlava del Conservatorio e del pianoforte, che secondo lui era indubbiamente
meglio della chitarra; il secondo del Brasile, tutto sommato non una brutta idea per “farsi della
gavetta” e conoscere il mondo. Credo che nessuno dei due ascoltasse l’altro per davvero, perché
entrambi pretendevano costantemente la mia opinione di giudice, come se quel paio d’anni di
differenza tra noi avesse il potere di donarmi saggezza imprescindibile su qualsiasi argomento.
Quando capirono che non avevo nessuna intenzione di commentare il loro futuro, coinvolsero nel
gruppo un ragazzo che non conoscevo, jeans, maglione e Globe. Dopodiché presero possesso delle
casse, pompando della roba old-school su cui fare freestyle. Fu allora che notai il tapis roulant, lì di
fianco.
Era un bel tapis roulant, ma d’altra parte l’intera casa era bella: gigantesca, in pieno centro, arredata
in quella maniera che hanno le case del centro storico di non ostentare la ricchezza, ma di lasciarla
trasparire dai dettagli: dalle venature dei mobili di legno o dalle volte dei soffitti. In effetti l’attrezzo
da palestra appariva un tantino fuori luogo, nella sua tecnologia scintillante e moderna.
Naturalmente al quinto o sesto prosecco la nostra massima aspirazione era solo riuscire ad
accenderlo.
Loro due, i miei amici, si esaltarono da impazzire. Avevano fumato qualcosa di più prima che
arrivassi, e sembravano due bambini a Mirabilandia: uno iniziò a spingere il tappeto nero con un
piede, mentre l’altro ci correva sopra sempre più velocemente, la Peroni ondeggiante in mano.
Due ragazzi davvero in gamba. Prima dell’incidente, ricordo di aver visto quello con la birra ballare
breakdance, parlare in russo e bere dal naso. Non tutto insieme, però.
Io intanto cercavo la presa della corrente e anche un po’ il senso della mia esistenza, in mezzo a quei
mobili da ricchi con le venature e i piedi a zampa di leone. Finalmente incominciavo a sentirmi a
posto, lì in mezzo a quelli che potevo definire con orgoglio miei amici da una vita… Tuttavia, come
forse ognuno di loro, percepivo un certo retrogusto che aveva reso amaro tutto il buffet; uno stato
d’animo che serpeggiava in maniera sempre più evidente mano a mano che la festa si avvicinava
alla fine. Qualcosa di indefinibile, che alcuni sull’onda dell’entusiasmo mascheravano bene e altri
invece subivano persino più di me: una ragazza col vestito rosso, seduta sull’angolo del divanetto
come se scottasse, fissava il pavimento di marmo, le mani congiunte attorno a una bottiglia vuota.
Un ragazzo sul balcone era semi-sdraiato, appoggiato con la schiena contro il muro e avvolto in tre
coperte di lana, gentilmente offerte dalla padrona di casa. Sembrava cercare risposte lungo le strade
buie della città. Nella compagnia seduta al tavolo in sala, la conversazione pareva spegnersi
lentamente, come uno dei falò raccontati poco prima, e salvo qualche scintilla che divampava
fugace in gruppi di due o tre, si andava affermando il silenzio.
Tutt’ora non so dire che cosa fosse: solo un velo di malinconia all’idea di salutare il nostro amico
oxfordiano, o qualche disagio più profondo che si nascondeva a malapena?
Non so bene neanche come sia successo quello che è successo. So solo che la festa non era ancora
del tutto finita, che c’era ancora chi inseguiva un’ombra di divertimento spensierato su un tapis
roulant, e che io ero lì a cercare la presa della corrente per farlo correre un po’ e magari fargli
smaltire la sbronza. Lui aveva sempre la sua bottiglia di vetro in mano, e io credo di aver trovato la
presa nel momento sbagliato. Così come ero arrivato alla festa, nel momento sbagliato.
La Peroni gli si infranse addosso nella caduta, provocando diversi tagli superficiali qua e là, ma il
peggio fu il rumore sordo con cui sbatté la testa. In quell’istante ognuno abbandonò un’allegria che
non gli apparteneva, e mentre la nebbia di canne e di ricordi estivi si dissipava, goffamente
ricascavamo nel fango sporco della realtà.
Il tappeto nero continuava ad andare con un ronzio sommesso. Mi rimisi in piedi, gli occhi che
scorrevano sulla scena: il ragazzo era vivo, era cosciente, sghignazzava accasciato contro il muro.
Io, la padrona di casa accorsa dalla cucina, l’altro amico che aveva assistito e qualche innocuo
fattone che gironzolava lì intorno tirammo tutti insieme un sospiro di sollievo.
Ma l’incantesimo era infranto. Le storie, che ci avevano concesso una pausa nella loro culla, erano
svanite con quel rumore sordo: eravamo nuovamente intrappolati nella casa gelida, tra le mura e le
strade di cemento di una città che per noi non era più abbastanza.
Mentre io e il mio amico ci prendevamo cura del poveretto e lo adagiavamo su un letto libero, la
gente iniziò ad alzarsi, a salutare il festeggiato, a prendere la propria giacca, a salutarlo di nuovo
con più calorosità perché non lo si sarebbe più visto in giro per un po’… Nel giro di un quarto d’ora,
il mio amico si era ripreso e l’appartamento si era svuotato. Ora regnava una calma immobile, che i
vicini di tutto il condominio agognavano da ore. La musica andava a volume bassissimo, un brusio
quasi sovrastato dai rumori delle automobili fuori dalle finestre aperte. L’aria fresca della notte si
sostituiva alla cappa di fumo, creando correnti e soffi che spostavano i palloncini e i tovaglioli
caduti per terra. Gli avanzi di torte e salatini giacevano in piatti di carta, sparsi per tutta la casa
come le bottiglie vuote e gli accendini dispersi. Anche io mi sentivo un po’ vuoto e disperso, in
quell’istante. Stavo realizzando come fossero fragili certi momenti, e cercavo anche di convincermi
che il mio incidente avesse solamente portato allo scoperto qualcosa che era già rotto, in quella
serata e nelle nostre vite.
Dopo aver piazzato la mia vittima sul sedile di un taxi e aver aiutato a mettere un po’ in ordine quel
paesaggio avvilente, feci i miei migliori auguri all’amico che partiva per Oxford, ringraziai la
padrona di casa e uscii a farmi trafiggere dal freddo. Sotto il portico c’era la ragazza del divanetto,
da sola, il vestito rosso che brillava anche alla luce dei lampioni. Fumava una sigaretta sottile e
aveva il mascara colato. Mi mormorò un debole “grazie” mentre le passavo di fronte. La guardai
perplesso. “Per avermi fatto alzare,” disse. “Per avermi portata via di lì.”
Costantino Bovina