
“Mi servono i soldi per pagarmi la casa a Bologna”. Questo era il motivo per cui ho iniziato a lavorare come operaia in una fabbrica che produce macchine per il caffè. Ho avuto a che fare con mansioni prettamente manuali, alle quali non mi ero mai interfacciata prima e che mi incuriosivano, d’altronde quanti ventenni sanno cosa c’è dentro quei grossi oggetti?Avevo paura, non ero pronta mentalmente a uscire dalla mia zona di comfort, volevo mollare all’ultimo, però “Mi servono i soldi per la casa”. Arrivai spaventata e palesemente in ritardo, non ero stata informata degli straordinari e che quindi avrei dovuto iniziare un’ora prima.Subito notai una sorta di alienazione degli operai causata dal lavoro, sembravano tutti presi da quello che stavano facendo tanto da non accorgersi di una nuova presenza. Poi però mi accolse una dei responsabili che mi spiegò gli orari, le pause, i passaggi burocratici e ciò che avrei dovuto fare nel pratico.Mi lasciò nelle mani di una signora di mezza età con occhio giudicante, infatti con solo un suo sguardo mi precipitarono addosso tutti gli stereotipi sui giovani nullafacenti, ma accettai la sfida e iniziai a togliere la pellicola dai lamierini così come mi disse di fare. L’incarico comprendeva poche semplici mosse: con un cutter dovevo alzare un angolo della pellicola che rivestiva il pezzo di lamiera evitando di graffiarlo, per poi staccarla del tutto con le mani. Maledettissimi lamierini, il mio pollice ne ha risentito tantissimo. Procedetti con il lavoro e continuai ad impilare lamierini scintillanti, senza lasciare neanche un graffio. Dopo qualche minuto si crearono delle piccole torri e lei si affiancò a me per inserirci un tubo e dare un senso al tutto. I pezzi si accumulavano, quindi per gentilezza decisi di non occupare troppo spazio e ne alzai una pila trascinandola di qualche centimetro. La sua reazione mi fece capire che il mio gesto non venne apprezzato, emanò un urletto accompagnato dalla frase “No non farlo! Così è peggio!”. Cercai di trattenere la risata sotto la mascherina: con quella frase capii che la donna era un’isterica maniaca del controllo e ansiosa come poche, paranoica per ogni azione che compie o che viene compiuta.Finii di scuoiare i lamierini e mi vennero a salvare, la responsabile mi prese sotto la sua ala e mi portò in linea ad imballare le macchine pronte.In quel contesto ho realizzato quanto in realtà dietro a una catena di montaggio si crei una micro-società quasi esclusiva pronta ad aiutarsi e a scherzare quando meno ce lo si aspetta; come quando uno dei responsabili, un uomo rispettabile e apparentemente serio, decise di far scoppiare una guerra fredda con dei chiodini di gomma, lanciandomeli mentre soffocavo con una busta di plastica la macchina del ginseng. Quella mossa mi spaventò, improvvisamente mi vidi piombare un oggetto nero, probabilmente contundente, e appena mi girai verso la direzione di provenienza del razzo, sentii una grassa risata.Di episodi di questo tipo ce ne sono stati praticamente ogni giorno, soprattutto quando si lavorava fuori linea per preparare i componenti da assemblare in nuove macchine del caffè.La nuova macchina si chiamava Nina e mi stava davvero antipatica. Era piccola ma pesante, di un grigio triste e per nulla semplice da imballare. Presa dal nervosismo che mi provocava quell’invenzione oscena non feci caso a ciò che stava succedendo attorno a me, ma appena tornai da una breve pausa in bagno sentii il mio collega cantare una strofa di una canzone inventata sul momento dedicata alla nostra cara Nina, che, a quanto pare, stava molto antipatica a tutti.Tra colleghi ci si sosteneva e non si lasciava nessuno indietro. Siamo riusciti a creare un legame davvero intimo parlando di temi importanti, come la morte di parenti o la maturità dei loro figli.Chiesi a tre persone cos’era per loro la vita e mi risposero in tre modi completamente diversi. Continuai a fare questo giochino e ribadii a me stessa quanto sia bella la diversità. Ho conosciuto mamme di miei amici di cui non avevo quasi più notizie, ho saputo di una ragazza di ventitré anni che lavora lì da poco perché deve mantenere la sua bambina, ho scoperto che la maniaca del controllo è fissata con gli oli e i profumi, e di un ragazzo che rimpiange le scelte compiute perché in questo momento avrebbe potuto lavorare seduto con una camicia davanti ad una scrivania e con l’aria condizionata.Durante le conversazioni con queste persone cerco di far dire loro ciò che pensano del mondo, di come ci si sta, di cosa pensano della nostra situazione sociale. Ognuna di loro mi ha dato pezzi di un grande puzzle che ho ammirato da lontano ma che non ho usato per comporre il mio, perché sono troppo pesanti e non ho ancora abbastanza muscoli per sollevarli.Li terrò da parte e li collezionerò, li ricorderò e li incastrerò nel mio puzzle quando sarà il momento. Comunque sono riuscita a pagarmi la casa, anche se le ore di straordinario non erano stipendiate.
Erika Arno