
Il venticinque settembre la storia dell’Italia è cambiata radicalmente e con essa anche quella dell’Intera Europa. Giorgia Meloni, a capo di Fratelli d’Italia, ha stravinto le elezioni, lasciando indietro tutti, rivali politici e alleati. Di certo non è stata una vittoria inaspettata, il paese era pronto a questo risultato e le analisi prospettiche sulle elezioni non hanno sbagliato nemmeno questa volta. Vittoria schiacciante del centro-destra e tracollo imbarazzante del centro-sinistra. Non bisogna tralasciare, ovviamente, il dato dell’astensionismo: l’affluenza alle urne si è fermata al 63,91%, un dato inferiore di nove punti percentuale rispetto alle elezioni del 2018. È un dato disastrante, un italiano su tre non è andato a votare. Ad ogni tornata elettorale l’elemento dell’astensionismo ritorna, fa parlare di sé per un giorno o due per poi essere nuovamente dimenticato. È come se finiti gli spogli e arrivati gli exit poll, non interessasse più a nessuno che nel paese pochi vanno a votare. Lo stesso accade per le elezioni regionali e comunali. La gente non va a votare, questo è un dato empirico con cui si devono fare i conti inevitabilmente e che deve spingerci a porci delle domande: che legittimazione politica ha una vittoria con quasi la metà degli aventi diritto che non è andata a votare? La forza politica vincente è realmente rappresentativa della volontà del popolo? Soprattutto, perché i cittadini non si recano alle urne?
L’ultimo quesito dovrebbe interessare principalmente i politici e i partiti perché coinvolgere i cittadini nella vita politica dovrebbe essere il loro primo obiettivo ma sembra che, da tanto tempo ormai, questo non gli interessi più. Il termine corretto da allacciare all’astensionismo è quello di disaffezione. Il vocabolario della Treccani definisce il termine come perdita dell’attaccamento a una cosa o ad una consuetudine ed è curioso soffermarsi sul termine utilizzato: attaccamento. Parola che fa pensare ad un legame viscerale, intimo e convinto che si ha con una determinata cosa, in poche parole, un rapporto importante e forte. Il fatto che il nostro paese abbia perso la volontà di restare attaccato al diritto di voto, è perché, forse, non c’è più nulla a cui rimanere attaccati. Mancano i partiti, manca la politica territoriale, manca l’attivismo, manca la politica giovanile dei partiti, manca tutto. I partiti non partono più dal basso, manca il legame con il territorio e con la gente, le periferie vengono lasciate a loro stesse e quello che interessa ai politici è soltanto ottenere il voto per rimanere lì, immobili nel palazzo di vetro del potere. Non più un comizio itinerante nei piccoli centri dell’entroterra, non più l’esigenza di farsi conoscere da parte dei candidati, nessun coinvolgimento dei votanti nella campagna elettorale. I candidati vengono scelti dall’alto, imposti dall’alto e il confronto con l’elettorato sparisce. Ormai la politica si fa solo sui social, un post Facebook o Instagram viene preferito ad un incontro in un circolo (sempre che ne sia rimasto qualcuno) e il guardare negli occhi le persone viene accantonato per preferire freddi e inutili commenti Facebook. Sarebbe ingenuo non vedere che non solo le nostre vite si sono spostate sui social network ma che anche la politica ha subito questa trasposizione. Però il fatto che sia successo e che sia questa la realtà di oggi, non ci deve esimere dall’affermare che è stato un esperimento fallimentare. La politica fatta sui social non ha portato nessun beneficio, al contrario, alimenta la perdita dell’attaccamento da parte dei cittadini verso di essa che causa la disaffezione. Oltre alla ramificazione sul territorio che manca, negli anni non son stati raggiunti risultati soddisfacenti per superare o almeno cercare di superare i problemi atavici del nostro paese: debito pubblico, salari bassi, natalità quasi assente e invecchiamento della popolazione, sicurezza sul lavoro, povertà, fuga di cervelli, mancanza di fondi per l’istruzione, mancanza di personale per i comuni, la questione meridionale ecc… Non percependo nessun risultato utile o un progetto politico che possa risollevare le sorti del paese, è naturale che i cittadini si allontanino dal mondo politico, vedendo del tutto vana la loro partecipazione. E se è ammissibile la trascuratezza della ramificazione sul territorio da parte di una forza di destra, questo non è ammissibile per una forza di sinistra.
La sconfitta disastrosa del centro sinistra parte proprio da qui, la politica vicina ai più deboli e agli emarginati non può esistere se manca il legame con le periferie e con l’entroterra. Così facendo la politica della sinistra finisce per diventare solo inutile e bella retorica. Il Partito Democratico, capitanato da Enrico letta, ha sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare. È stato un suicidio politico, senza nessuna logica alla base. L’errore primario è stato il contenuto della campagna elettorale. Un progetto politico basato solo ed esclusivamente sull’evitare che la destra andasse al governo. È stato solo un muovere contro l’alleanza di destra e mai un proporre idee e programmi dall’alleanza di sinistra. La tattica di ergersi come scudo contro il fascismo dei nemici non ha portato i suoi frutti. Il periodo storico che abbiamo vissuto e che viviamo tutt’ora è speciale, in meno di tre anni abbiamo vissuto una pandemia e una guerra di territorio, con le conseguenze economiche che stiamo soffrendo. Di conseguenza le persone vogliono delle risposte, delle idee chiare su cosa fare e su come rispondere alla crisi. La retorica del tutti contro il fascismo non poteva funzionare. Una forza di sinistra deve farsi portavoce della sofferenza, deve guardare al sociale e non al proprio tornaconto, perché anche i sostenitori più fedeli, ad un certo punto, si stancano. Se la campagna politica ha rappresentato la corda con cui la sinistra si è suicidata, l’alleanza presentata è stata la sedia su cui è salita prima di stringere la corda. Letta si è alleato con Luigi Di Maio, che non è stato neanche eletto, aveva aperto le porte a Calenda dopo che quest’ultimo aveva accolto a braccia aperte le dimissionarie da Forza Italia, niente poco di meno che la Gelmini e la Carfagna. L’ex premier si era reso disponibile addirittura ad un dialogo con Renzi, dimostrando di avere un orgoglio politico nullo. È stato un disastro totale, senza precedenti, senza senso. Il Pd avrebbe potuto correre da solo, convincere i cittadini che aveva ancora una spina dorsale e soprattutto il coraggio di presentarsi alle elezioni con un programma chiaro e soprattutto di sinistra, ma così non è stato.
Dall’altra parte invece un’arrembante Giorgia Meloni ha portato i suoi ad una vittoria storica. Ha sbaragliato i suoi alleati e preso di forza le redini del centro-destra. Dopo il 25 settembre bisogna fare i conti con la realtà: in Italia c’è una base politica forte di destra estrema. L’aborto, la lotta di genere, l’ambientalismo, il femminismo, aspetti del nuovo mondo che sono diventati centrali e fondamentali nel discorso giovanile ma che la forza di governo ostacola e contraddice. È triste vedere le elezioni del presidente del Senato essere presiedute da Liliana Segre e poi vedere che quello stesso Senato elegge Ignazio Larussa, che noi tutti conosciamo. D’altronde l’Italia è un paese davvero strano. La vittoria di Giorgia Meloni è un pezzo che va ad aggiungersi al puzzle del fallimento del progetto europeo. In uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea ha vinto una forza politica reazionaria, cattolica e di estrema destra. Orban in Ungheria, il caso polacco che rinnega la superiorità del diritto europeo su quello nazionale, l’elezione italiana, tutti sintomi di cedimento dell’impalcatura europea fatta di inclusione, libertà e rispetto dello stato di diritto . Per non menzionare la guerra in Ucraina, che richiama altri spunti di analisi.
L’unico dato positivo che si può trarre da queste elezioni, è che finalmente si è sancito il non essere di sinistra del Partito Democratico, un partito ibrido, senza una precisa identità e che negli ultimi anni ha fatto di tutto solo per rimanere al governo. C’è da ricostruire una sinistra e questa legislatura è un’occasione imperdibile. Adesso bisogna osservare attentamente l’operato del governo Meloni, che presenta delle idee pericolose e non conformi ai principi della Costituzione che sono alla base del nostro ordinamento. Violazione dei principi costituzionali e di quelli internazionali che è stata già messa in atto dalla Presidente Meloni alla prima occasione utile. Il trattamento riservato ai migranti salvati dalla Ong Ocean Viking e il linguaggio che viene utilizzato dal governo è inaccettabile. Sembra essere ritornati al governo Conte I, con Salvini ministro dell’interno, momento storico del nostro paese in cui la narrazione era: il vero problema dell’Italia sono i migranti. Di nuovo questa narrazione, di nuovo questo specchio per le allodole. Il mondo intero sta uscendo da una pandemia, in Europa c’è una guerra di aggressione, la povertà e i costi crescono e la preoccupazione del nostro governo è rivolta verso un gruppo di naufraghi che rischiano la vita in mare per cercare una vita migliore. Addirittura il ministro della difesa, Guido Crosetto, ha definito le Ong “centri sociali galleggianti”, tutto ciò è paradossale. Questa politica così razzista e aggressiva fatta sulla pelle degli indifesi è inammissibile, è contraria allo spirito solidaristico e umanitario che impernia la Costituzione Repubblicana. È un episodio emblematico per capire la direzione che il governo Meloni vuole far prendere al nostro paese, una strada verso l’isolazionismo politico e la difesa dei territori. Tutto contorniato da una politica aggressiva. Obiettivi politici anacronistici e contrari alle spinte globalizzanti della modernità.
Tommaso Aiello