
Mi alzo abbastanza presto sabato mattina, voglio andare in piscina. Mi sto lavando i denti, leggo un articolo di giornale che mi manda un amico. Un ragazzo di 23 anni, iscritto alla mia facoltà, si è lanciato da un ponte in periferia e si è ammazzato, perché aveva detto ai suoi che si stava per laureare e non era vero. Forse complice la forte instabilità emotiva di questi giorni, inizio a piangere. Proprio con i singhiozzi, con ancora lo spazzolino in bocca e il dentifricio che mi cola. Non riesco a smettere di piangere, piango per cinque minuti abbondanti. Piango per una persona che non conosco, perché piango? Ci penso per tutto il giorno. Alla fine mi dico che piangevo perché mi sento in colpa. Non è il primo caso, non è il secondo. Che responsabilità politica ho, che responsabilità collettiva abbiamo, della morte di uno studente che si uccide perché non può sostenere la vergogna di essere indietro e di aver mentito? Un anno fa un altro ragazzo si era buttato da un ponte su cui passo sempre, e per giorni avevo immaginato il suo corpo sfracellato sull’asfalto in quel punto. E poi? Mi è passata, sono andato avanti con la mia vita, un anno dopo e non abbiamo fatto niente. Abbiamo continuato tuttə a riprodurre la dinamica tossica della performance, della gara a tempo, della realizzazione di sé con i successi accademici. Non abbiamo ascoltato abbastanza amicə e conoscenti in difficoltà, e per qualcuno è stato determinante. Piangevo perché è anche colpa mia.
Giorgio Gavioli