Occupazioni e Sgomberi

Il 24 maggio la polizia ha sgomberato l’ex istituto Cesare Ragazzi di Via Zago 1, a Bologna. Lo stabile era stato occupato il 21 aprile dall’associazione Bancarotta, formata da una serie di realtà e collettivi presenti sul territorio bolognese già da molti anni.

Prima di Via Zago, c’era stata infatti l’esperienza sociale dell’ex banca di Via Fioravanti, sgomberata il 7 aprile dopo nemmeno un mese di occupazione. Bancarotta SRL aveva tra l’altro vinto questo spazio con un bando nel 2018, ma l’amministrazione, dopo dialoghi e confronti per definire i dettagli tecnici, aveva deciso di fare tabula rasa delle trattative e non l’aveva mai effettivamente consegnato. Pochi passi più in là, inoltre, c’erano stati i diciassette anni di XM24, a partire dal Social Forum di Via Ranzani, passando per il Mercato Ortofrutticolo in Via Fioravanti e per l’ex Caserma Sani, sempre in Bolognina. In tutto ciò si inserisce anche l’occupazione abitativa di Via Zampieri, il cui sgombero è avvenuto il 23 dicembre 2021, dopo più di due mesi e dopo soli due giorni da un incontro col Comune in cui si iniziavano a cercare delle soluzioni. (per chi fosse interessato, qui c’è la nostra intervista allə occupanti)

Lo sgombero di Via Zago 1 si inserisce dunque in un progetto politico di più ampio raggio, un progetto che non accetta devianze dal tracciato, non accetta un modello alternativo di socialità e di vita di quartiere, non accetta l’orizzontalità delle soluzioni nate dal basso e non accetta, in definitiva, che la comunità scelga per sé, saltando la mediazione degli organi di potere e della rappresentanza – se così si può chiamare. Cos’è invece che accetta questa amministrazione, cos’è quello che vuole e su cui, quartiere dopo quartiere, sta mettendo le mani?

Si tenterà di offrire qualche risposta, ponendo da parte quel risentimento che ogni realtà culturale inevitabilmente immischiata nei processi in corso non può fare a meno di provare nei confronti di una simile gestione.

C’è in primis l’aspetto economico, come sempre. Da anni la città di Bologna sta seguendo una trasformazione radicale (qui trovate una nostra analisi più approfondita sulla faccenda), che riguarda tanto il suo aspetto di facciata quanto le sue radici più profonde. Il centro storico ha subito una “riqualificazione” rapidissima, diventando in pochi anni un’adorabile cartolina fatta di ristoranti, locali, attrazioni e negozi di alta moda, secondo una dinamica che ha già mietuto diverse vittime prima di quella in questione – pensiamo a Venezia o a Firenze – e che continuerà a fare terra bruciata dietro di sé, in quanto figlia di un più ampio mutamento globale del modo di intendere le città. Soggetti quali i centri sociali, i circoli, le realtà di movimento e studentesche sono stati progressivamente ridimensionati, logorati, espulsi dalle mura per lasciare spazio a un altro genere di agenti, che potessero fornire ciò di cui la città aveva bisogno: profitto, ricchezza, benessere.

Non c’è voluto molto perché il turismo di massa globale si accorgesse di questo cambiamento, e il centro storico già sovrappopolato e in carenza di abitazioni popolari – pensiamo all’emergenza abitativa tutt’ora in corso, che si abbatte ogni anno sugli studenti universitari e sulle classi meno agiate – si riempisse di turisti in cerca di alloggio. Airbnb, Booking e altre piattaforme predatrici hanno approfittato da un lato del vuoto normativo italiano, dall’altro della logica imprenditoriale a favore dei privati che il Comune di Bologna non ha mai smesso di attuare, con un conseguente inaridimento sociale e culturale di tutta la zona centrale. E una volta svuotato il centro?

La macchina non può certo arrestare così la propria corsa: ora infatti è il turno delle periferie.

Per quanto riguarda l’università, le soluzioni dell’amministrazione sono state studentati di lusso come quello – non a caso – in Bolognina, lo Student Hotel, i cui affitti viaggiano tra i €500 e i €700 al mese. In buona fede si tratta di incompetenza politica, di scarsa lungimiranza: il Comune sta fraintendendo il problema, non è capace di attuare soluzioni più economiche, sopravvaluta i portafogli degli studenti fuorisede che percorrono il suolo bolognese…

In malafede invece queste scelte si inseriscono nella trasformazione in atto, che non è soltanto casuale, non è soltanto frutto di processi di più ampio respiro da cui Bologna viene investita, bensì è una calcolata ri-pianificazione della città e delle persone che possono attraversarla. Perché uno studente che non può permettersi un affitto del genere, di certo non alimenterà granché l’economia cittadina. Uno studente non benestante porterebbe la movida nelle piazze, porterebbe sporcizia e degrado, mentre quello che si cerca qui sono studenti innocui, che consumino le loro bevande al chiuso, nei locali e nelle discoteche, che mangino fuori una volta a settimana e magari richiedano all’università un tipo di sapere che sia utile solo a fargli guadagnare tutto quello che spendono. Questo è il modello di studente che si sta cercando di attirare qui.

Tutto questo va però portato avanti in una determinata maniera, perché Bologna ha delle radici profonde, è intellettuale e di sinistra, e certe cose non si possono dire apertamente da queste parti. Bisogna avvolgere il pacchetto in una confezione sgargiante, che sia rossa e che sappia di novità: da qui la retorica della “città più progressista d’Europa” portata avanti dal sindaco Lepore durante le elezioni comunali. Una retorica che abbia il gusto dell’innovazione e dell’avanguardia, che metta in una luce diversa e nuova le speculazioni dei privati sugli appalti, la devastazione ambientale a favore della viabilità, l’inserimento della cultura e dell’intrattenimento nei circuiti del mercato e via dicendo.

Proprio a tal proposito, è curioso come venga operata una diversificazione su più fronti. Infatti, si potrebbe obiettare, ci sono anche i concerti in piazza, il cinema all’aperto, la pizza biologica del Làbas e le birre resistenti di Via del Pratello. Di cosa ci si lamenta, dunque? Che bisogno c’è di occupare uno stabile disabitato, per ballare o per organizzare un festival del fumetto indipendente – come quello tenutosi in Via Zago due giorni prima dello sgombero – quando Bologna è così piena di opportunità?

La differenza è molto semplice, e sta nel ruolo che abbiamo noi, noi che frequentiamo questi posti, in quanto collettività di persone acculturate, artistiche e tendenzialmente di sinistra. Da un lato infatti ci è permesso fare tutto ciò, nei posti prestabiliti, rispettando delle regole prestabilite ed evitando di fare emergere tematiche spinose per chi prestabilisce. Siamo dunque utenti, o meglio, clienti dell’arte e della cultura: rispetto ad altre città abbiamo un’ampia gamma di scelte, certo, ma c’è pur sempre qualcuno che ha scritto il menù della serata, e noi non possiamo far altro che ordinare questa o quella portata, accontentandoci di scartare poi qualcosina quando ci arriva direttamente nel piatto. Siamo spettatori di spettacoli già scritti, che per quanto interessanti ci relegano sempre nella posizione passiva della platea. Dall’altro lato, invece, non si è più clienti ma chef, non si è spettatori ma attori in scena, in quanto si parte da zero tutti insieme, lo spazio è vuoto, la pagina è bianca, tutti gli ingredienti sono a nostra disposizione. È proprio questo il motivo per cui il 24 maggio, all’alba di un martedì lavorativo, nell’arco di poche ore più di duecento persone si sono ritrovate a protestare sul ponte di Stalingrado, sfilando poi in un corteo per le vie della città. Bologna non ha solo bisogno dell’ennesimo spazio ricreativo: ha bisogno di uno spazio autogestito, libero da qualsiasi logica di clientelismo, aperto e ricettivo nei confronti delle istanze che lo attraversano e non di quelle che lo controllano.

C’è però un rischio: all’assemblea pubblica in Piazza dell’Unità, i collettivi appena sgomberati riflettevano sul proprio essere scomodi al Comune, sul fatto che “essere una spina nel fianco” sia un gesto politico forte. Ma questo non basta, finché non si ha un pieno coinvolgimento della cittadinanza: lo sgombero di XM24 ad esempio è stata una notizia che ha fatto il giro d’Italia, se non d’Europa. Una retorica basata sull’essere “una spina nel fianco” può portare all’isolamento, all’allontanamento dalla comunità, in primis da quella di quartiere, che è invece il punto di partenza, la base su cui fare leva. È necessario sì confrontarsi – anche in maniera conflittuale – con le autorità, ma prima ancora confrontarsi con Bologna, con le persone e le realtà politiche e le iniziative sociali e culturali che ancora, nonostante tutto, l’attraversano.

Cosa c’entra tutto questo con lo sgombero di Via Zago?

C’entra perché queste occupazioni sono la manifestazione di esigenze e mancanze che l’amministrazione vuole goffamente nascondere sotto il tappeto, oltre che un gesto politico in aperto conflitto col modello di cittadinanza che si vuole promuovere. C’entra perché se si lascia spazio a una socialità dal basso, gratuita e critica, una socialità che punti non solo a creare e attirare dei consumatori, ma innanzitutto delle persone e dei cittadini, tutto il meccanismo istituzionale di gentrificazione finora analizzato si inceppa. Se si concede a un quartiere come quello della Bolognina di prendere vita, di fondarsi orizzontalmente e localmente, in contrasto con la struttura globalizzata e verticale del centro storico, si concede anche la speranza di un’alternativa.

Se si permette a determinate realtà di fare breccia nel tessuto cittadino, se gli si permette di entrare in contatto con la comunità, di organizzare iniziative ed eventi, allora si lascia che questi luoghi diventino centri di significato e di sapere. Centri di potere. E questo non è ammissibile, perché a quel punto la spina nel fianco non sarebbe XM24, non sarebbe Via Zago: la spina nel fianco sarebbe dentro Palazzo d’Accursio.

Costantino Bovina

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