
Nel 1986, il pubblico delle sale cinematografiche rimane sconvolto davanti alla visione di Velluto Blu. “Scioccante”, “eccessivamente spinto”, “violento”, “scandaloso”, tuonano la maggior parte degli spettatori al termine della proiezione (i pochi “audaci” che sono rimasti fino alla fine). Sembra trattarsi di un film destinato a suscitare scalpore; un film destinato ad essere ricordato per l’eccessività che incrementa il suo irresistibile fascino. Insomma, una pubblicità interessante per David Lynch, che all’epoca annoverava all’attivo già tre lungometraggi (Eraserhead, The Elephant Man e Dune) e una serie di piccoli cortometraggi (The Alphabet, The Grandmother, The Amputee e altri ancora). La notorietà del regista americano, all’epoca come oggi, ruotava principalmente intorno ai soliti aggettivi: contorto, pazzo, allucinante, disgustoso e incomprensibile. Inoltre, contribuirono ad infangare la sua reputazione cinematografica alcuni drammatici flop: in particolar modo, il recente Dune gli causò non pochi problemi (soprattutto di natura economica). Tuttavia, come tutte le migliori favole ci hanno insegnato, è esattamente in questo genere di situazioni che bisogna fare di necessità virtù e così, nel 1986, David Lynch dà vita ad un grande capolavoro del cinema mondiale, un film tanto scabroso quanto paradigmatico: Velluto Blu. La sintesi perfetta tra le ossessioni di Lynch (il sesso, la perversione, il mistero, le realtà nascoste…) e un neo-noir avvincente, organico e ben architettato.
Appena iniziata la pellicola, la macchina da presa si affaccia su idillici scenari da buon vicinato, animati da affabili signori che annaffiano il proprio giardino e da sorridenti ausiliari del traffico che aiutano i bambini ad attraversare la strada; vengono inquadrate le candide staccionate e i meravigliosi cespugli di rose, fiori di un inverosimile rosso. L’attacco del film, nella sua assoluta semplicità, altro non fa che ricordarci quanto sia incantevole, pacata e tranquilla la vita di provincia americana. Ci mostra, in poche ma essenziali scene, un quadro rassicurante, pacifico dove, in effetti, non succede quasi nulla: le solite facce che compiono le solite azioni nei soliti luoghi. Le giornate passano nella totale piattezza, anche durante la primavera, quando il sole splende, l’aria è salubre e tutto fiorisce incantevolmente. Ogni cosa scorre e va avanti senza grandi paure o timori poiché, in un posto come questo, si sa, non avviene mai nulla di sconvolgente. E Lumberton, cittadina in cui viene ambientata la vicenda, non fa eccezione: appartiene a questo genere di luoghi; luoghi che sembrano essere lontani anni luce da qualsiasi sottospecie di caos e disordine; luoghi che, simili a bolle di sapone, riescono ad essere sia limpidi e leggeri, sia estremamente fragili, pronti a scoppiare al minimo urto. E ad innescare questo devastante urto, vedremo, ci penserà un “semplice” oggetto. Un orecchio, per essere precisi. Un orecchio, ritrovato tra erba e terra e divorato da una montagna di formiche. Ma soprattutto, un orecchio privo del suo padrone.
Fra i tanti termini che utilizziamo quotidianamente, molti sono stati “presi in prestito”, mutuati dalla psicanalisi. Ed è principalmente opera di Sigmund Freud se oggi, alcuni termini quali inconscio, subconscio, complesso, transfert e tanti altri ancora, sono entrati nelle nostre conversazioni, assumendo il senso che lo psicanalista austriaco ha ritenuto opportuno cucirgli addosso. Fra di essi, anche se non menzionato, citiamo un termine, forse meno gettonato ma sicuramente imprescindibile per affrontare un discorso come questo (su un tema come questo). Potremmo grossolanamente riassumere gli studi psicoanalitici di Freud e semplificare barbaramente il concetto in questione: poniamo, per un attimo, l’attenzione sui numerosi momenti della nostra vita in cui, per varie e casuali contingenze, ci siamo ritrovati in una condizione di assoluto spaesamento e di spaventosa estraneità; analizzando queste esperienze è possibile rintracciare la presenza di una caratteristica comune ad ognuna di esse: quando più, quando meno, ci si è ritrovati a stretto contatto con un certo elemento destabilizzante. Ovvero: siamo entrati in relazione con qualcosa che ci è apparso nuovo (ma che, in teoria, non potrà essere definito del tutto nuovo…). Quel particolare stato d’animo, quel rabbrividente malessere, in psicanalisi (freudiana e non?), viene menzionato spesso e volentieri con un termine chiave emblematico: perturbante. Si definisce perturbante “ciò che si presenta come estraneo e non familiare al soggetto, generando in lui angoscia e terrore, e la cui origine si connette, contraddittoriamente, a ciò che gli era già noto da lungo tempo, ma che era diventato oggetto di una rimozione”. Si tratta, in un certo senso e in parole poverissime, di un ri-conoscere senza aver mai conosciuto prima. E così, l’imbattersi in un organo mutilato e soprattutto, il suo decontestualizzarsi, il suo sfuggire alla convenzionalità che prevedrebbe la presenza di un corrispettivo possessore, di “un corpo sul quale stare”, contribuisce notevolmente a trasmettere a noi spettatori (e, vedremo, anche agli stessi personaggi del film, in quanto spettatori, a loro volta, del macabro ritrovamento) quel ricercato sentimento freudiano di angoscia e timore che il regista ha ritenuto necessario farci provare.
Sarà l’innocente universitario Jeffrey Beaumont a lodarsi dell’atroce rinvenimento. Partendo da questo semplice avvenimento, con un inquietante zoom della cinepresa, scivoliamo all’interno dell’orecchio mozzato, destinati a compiere un misterioso viaggio verso una realtà sconosciuta: sprofondando nel lato segreto di Lumberton, dove avremo modo di esplorare l’essenza sotterranea di un nuovo e spaventoso mondo. Così il giovane studente, aiutato dall’amica Sandy Williams, figlia del detective impegnato nel caso, si interessa attivamente dell’intera questione, arrivando addirittura a condurre pericolose indagini per conto proprio per scoprire nuovi retroscena dietro l’oscura faccenda. Effettua le proprie ricerche e giunge a conoscenza di dettagli importanti e utili al raggiungimento della verità, scoprendo, ad esempio, che vicino al luogo del rinvenimento vive una cantante il cui nome sarebbe Dorothy Vallens. La noia quotidiana, l’adrenalina giovanile e non si sa bene quali altri impeti, spingono i due ragazzi a recarsi presso l’abitazione della cantante, situata in una strada dalla quale, viene raccomandato a Jeffrey, è meglio stare alla larga. E, in effetti, allontanandosi dal loro quartiere e spingendosi verso l’appartamento di Dorothy Vallens, si assiste ad un mutamento continuo ed esponenziale di suoni e ambientazione, che divengono via via sempre più cupi e tenebrosi. Jeffrey e Sandy, ritrovatisi nella “strada proibita” di Lincoln St., capiscono di essere in un luogo in cui non dovrebbero stare e, dopo averne assaporato l’atmosfera inquietante e tetra, decidono di tornare indietro, terrorizzati. È curioso notare come Jeffrey, nonostante l’età, tenda ad assumere un comportamento a tratti estremamente maturo e a tratti comicamente infantile: il primo aspetto del carattere è riscontrabile nell’impegno, nell’attenzione e nel suo incredibile sangue freddo con cui si dedica al caso, pur non avendo nei confronti di esso alcun obbligo morale o etico, essendo egli un semplice studente universitario; il secondo aspetto, l’infantilismo appunto, è altrettanto emergente nei suoi comportamenti ostinati, nella sua testardaggine, nel suo infrangere le regole imposte dagli adulti (potremmo dire, in senso ampio, dall’autorità) e nel suo ossessivo interesse per l’indagine in corso. Una buona dose di sangue freddo mescolato ad una morbosa curiosità, dunque. E infatti, nei momenti in cui il suo infantilismo ha la meglio, notiamo come il perverso desiderio indagatore di Jeffrey rimanga in lui prepotentemente saldo e ancorato, portandolo addirittura a fingersi un disinfestatore, ad entrare nell’appartamento di Dorothy Vallens e a mettersi alla ricerca di indizi significativi (ritornano, dunque, il coraggio e l’invidiabile sangue freddo). Riuscirà fortunatamente a rubare le chiavi dell’abitazione e a ritornarci in un secondo momento, andando incontro, questa volta, a rischi e pericoli ben più gravi. Travolto dall’adrenalina dell’indagine e dall’alone di mistero che avvolge l’intera vicenda, decide di approfittare dell’assenza della cantante durante una sua esibizione serale, per intrufolarsi nuovamente in casa sua.
Ed è esattamente qui che si raggiunge il momento più alto, per intensità e inquietudine, dell’intera pellicola: Dorothy ritorna nel suo appartamento e Jeffrey, spaventato e colto di sorpresa, si nasconde dentro l’armadio. Dal suo interno, attraverso gli spiragli della cabina, è ima grado di osservare la stanza da una posizione segreta e, allo stesso tempo, privilegiata: i suoi occhi, impauriti e ferocemente curiosi, sono i nostri occhi.E si posano, fissi e immobili, sulla tormentosa visione. Rientrata all’interno delle mura domestiche, la sensuale e beata Dorothy Vallens che intonava sul palco le morbide note di Blue Velvet sembra essere scomparsa, cedendo il posto ad un’altra donna, totalmente diversa: una donna sull’orlo della disperazione, priva di qualsiasi carica sessuale, disgustosa e sofferente. Levatosi il suo travestimento da cantante di nightclub, Dorothy rimane da sola, faccia a faccia con la sua terribile malattia. Si rivela, dunque, una figura fortemente enigmatica, succube del suo oscuro passato del quale non abbiamo altro che briciole d’informazioni racimolate dall’ascolto delle sue telefonate: pronuncia, infatti, più volte il nome di un uomo e di un bambino (probabilmente suo marito e suo figlio) il cui ruolo, all’interno della vicenda, non ci verrà mai totalmente chiarito. Con l’irrompere sulla scena dello psicopatico Frank Booth, l’ambiente inizia a mutare, passando da angosciante ad infernale. Penetra come una furia all’interno dell’appartamento, si avvicina minacciosamente alla cantante che, ormai pallida e inerme, viene travolta da un turbine di violenza e di selvaggio furore: è brutalmente sodomizzata da Frank che, ormai inarrestabile, consuma l’amplesso inalando una strana droga tramite una maschera per l’ossigeno. La follia di Frank ci viene mostrata in tutta la sua ferocia e la sua aggressività cresce man mano che la narrazione progredisce fino a raggiungere il punto di massima tensione, nel momento esatto in cui lo squilibrato violentatore raggiunge il suo viscido orgasmo. Dorothy, nel mentre, subisce passivamente l’accanimento di Frank, manifestando un’inusuale forma di godimento, come vittima e, al contempo, dipendente dal brutale atto sessuale a cui è costretta: sembra quasi che goda nell’essere picchiata e umiliata, (come in seguito chiederà allo stesso Jeffrey durante un rapporto sessuale). Da lontano e “al sicuro” nel suo nascondiglio, il giovane Jeffrey assiste all’intera scena, atterrito dalla paura, dallo schifo e dall’orrore a cui sono stati sottoposti i suoi occhi. Eppure, distogliere lo sguardo da uno spettacolo così raccapricciante, sembrerebbe impossibile. In lui (e, in base a quanto detto prima, anche in noi) si è insinuato e fatto strada un malefico desiderio voyeuristico che ha costretto l’osservatore a scrutare il male in una delle sue rappresentazione più tragiche, paralizzandolo e al contempo affascinandolo di fronte all’agghiacciante spettacolo. Gli eventi della precedente serata, se da un lato sconvolgono Jeffrey, dall’altro gli consentono di guardare il mondo sotto un’altra luce e prospettiva: avventurandosi nel sottosuolo ha avuto modo di scoprire un nuovo mondo, oscuro e misterioso. La lieta e gioiosa cittadina di Lumberton nasconde, in verità, un inquietante abisso che Jeffrey è stato in grado di scrutare; un abisso fatto di depravazione, sadomasochismo, violenza e criminalità. Lynch, utilizzando Jeffrey (e l’orecchio) come medium, distrugge la parete che separa i due mondi che, pur sembrando incredibilmente distanti, risultano estremamente vicini. E così, gli iniziali dolci scenari mostratici acquistano un significato del tutto diverso: ecco che il loro scopo non consiste più unicamente e banalmente nel trasmetterci quel ricercato senso di pace e quiete (tanto agognato dall’individuo) ma si percepisce e accentua, invece, il passaggio ad un universo differente; crolla l’illusoria distanza fra le due diverse realtà. Ed esattamente come Jeffrey, rinchiusi e impauriti nell’armadio, possiamo solo restare inermi a guardare in faccia l’orrore e la depravazione del mondo.
di Rocco Rossi