
“L’Amministrazione comunale, con la delibera approvata ieri, per la prima volta riconosce l’alto valore culturale e sociale del Gridas e della memoria di Felice Pignataro. Si esce dalla precarietà, dai tentativi di sgombero e di eliminazione di questa esperienza così forte”. Sono queste le parole pronunciate dal sindaco di Napoli De Magistris nel 2018 , in occasione del riconoscimento di “bene comune ” alla sede storica del Gridas di via monterosa 90/b , luogo di proprietà dell’ex IACP , destinato proprio alla realizzazione di un centro culturale, rimasto abbandonato. Parole importanti ma rese vane della sentenza civile che meno di un mese fa ha dichiarato colpevole l’associazione per “occupazione senza titolo”, condannandola a pagare le spese processuali per più di 15.000 euro e a lasciare subito l’immobile. Cosa è cambiato dal 2018 a oggi? Niente, solo la giunta. Il Gridas è un centro sociale che nella periferia nord di Napoli, a Scampia, ex Secondigliano, dal 1981 risveglia le coscienze dal sonno della ragione. Perché il sonno della ragione, come scriveva il pittore Francisco Goya sulle pareti del suo quinto del sordo, produce mostri. Da qui, il nome. Questa storia inizia propria dalla scrittura e dalla pittura : alla base di tutto ci sono infatti due artisti: Mirella la Magna, scrittrice e insegante di lettere, e Felice Pignataro, pittore, entrambi profondamente convinti della forza della cultura e dei murales collettivi come strumento di socializzazione, conoscenza e coinvolgimento degli ultimi. Felice ha colorato insieme a centinaia di bambinə e ragazzə gli angoli più abbandonati dell’hinterland napoletano , realizzando oltre 200 murales; ed è stato definito da E. H. Gombrich, del Warburg Institut di Londra, il più prolifico muralista del mondo. “I mostri”, diceva Felice, sono “le case tutte uguali e grigie, l’immagine di una società che impone l’omologazione e esclude l’inventiva, la creatività, essenziali per una maggiore vivibilità”. I mostri sono i “falansteri della 167” e cioè i risultati della legge urbanistica n. 167 del 1962 su cui si è basata la costruzione di Secondigliano e di tutta la periferia nord-est di Napoli. L’idea della legge era mettere a vantaggio delle comunità il plusvalore delle aree fabbricabili, usando le somme per costruire le infrastrutture future. La sua realizzazione pratica fa rabbrividire, o comunque è completamente fallita: quando sono state assegnate le prime case, all’inizio degli anni ’70, le infrastrutture non c’erano. Neanche quelle minime come strade e negozi: c’erano solo case in un deserto di fango. Così è nato “il quartiere 167 di Napoli” ma, come diceva Felice, il numero al posto del nome è un concetto degradante: per questo il quartiere ha continuato a chiamarsi Secondigliano e ora Scampia. Nel 1972 anche Felice Pignataro e Mirella La Magna, compagni di vita, si sono trasferiti a Scampia. Hanno seguito lə ragazzə delle famiglie dei baraccati di Poggioreale, a cui facevano un doposcuola – “la scuola 128”, dal numero della baracca che usavano. Condividevano con lə bambinə e lə ragazzə l’arte del disegno spontaneo e li invogliavano a scrivere, facevano teatro – è stato prodotto anche un testo teatrale in napoletano sulla vicenda di un gruppo di baraccati, “Pascale Passauaie”- e realizzavano un giornalino di scrittura collettiva chiamato “La zoccola”.
Appena arrivati nel nuovo quartiere si sono subito resi conto di un grave problema che spesso affligge i quartieri costruiti per sopperire alla mancanza di case. Si tratta cioè dell’unione di due fattori : il primo è un sovraffollamento e una densità di popolazione superiore alla norma, prevedibili già al momento della costruzione del quartiere – Piscinola Scampia oggi conta infatti 70 mila abitanti per meno di 6 chilometri quadrati. Il secondo è la differenza tra le realtà – baracche e quartieri popolari – da cui lə abitantə sono stati sradicatə . Il risultato è una guerra per lo spazio tra poverə e meno poverə, ma sempre poverə. Questo provoca rancore, isolamento, ma nei casi peggiori violenza: “cassette della posta sradicate dai muri, porte incendiate, e i vani degli ascensori usati come latrine”. Inutile dire come il contesto favorisca l’affidamento alla criminalità organizzata che spesso rimane l’unica possibilità di lavoro e sostentamento. “Ogni notte a Scampia ci sono dei fuochi d’artificio o degli spari: non si sa se si festeggia un santo o se si ammazza qualcuno”, racconta Felice. Ma lo sparo può anche essere una segnalazione dell’arrivo di una nuova partita di droga, o una comunicazione per chi sta dentro al carcere. Felice e Mirella hanno continuato il loro “dopo contro scuola”, come lo chiamavano loro, in un quartiere dove una scuola vera e propria ancora non era stata costruita. C’erano delle “aule mobili” (che poi sono rimaste immobili), in cemento armato senza fonoassorbimento. A poco a poco sono apparse le prime infrastrutture ma senza alcuna progettazione che tenesse conto delle esigenze minime dellə abitanti. Prima le strade “più simili a piste di aeroporto che a strade urbane”, larghe e prive di attraversamenti pedonali se non a un kilometro di distanza ; e poi, solo 10 anni dopo, i negozi, in forma di mercatini rionali ma finti, e cioè senza la loro unica caratteristica utile della calmieratura dei prezzi. A metà degli ’70 è finita la costruzione delle Vele : è probabilmente la prima immagine che viene in mente se si pensa a Scampia, simbolo del suo degrado. Era un complesso di case, o meglio voleva esserlo, realizzato su un progetto ispirato all’Exisenzminimum, una corrente architettonica per la quale l’unità abitativa del singolo nucleo familiare deve essere ridotta al minimo indispensabile per agevolare l’utilizzo degli spazi comuni. “Faceva impressione anche solo vederle costruire” racconta Felice “la gru teneva una cassaforma di lamiera rettangolare, grande quanto tutto l’appartamento, al suo interno si colava il cemento armato e le tubature ai lati, poi si sfilava e si faceva allo stesso modo l’appartamento accanto”. I muri divisori erano di 5 – 6 centimetri, anche qui senza alcun assorbimento del rumore : “se uno faceva l’amore o tossiva si sentiva in tutto il palazzo”. Praticamente subito si è scoperto che a causa del cemento armato c’erano ovunque condense di umidità e questo le rendeva invivibili, ma qualcuno già ci stendeva i panni. La “fama” delle vele è dovuta ad un comitato di abitantə che si è mosso per il loro abbattimento. Oggi dei 7 edifici originari 4 sono stati demoliti (l’ultimo nel 2020), 2 devono ancora esserlo, e l’ultimo dovrebbe essere riqualificato. Intanto le Vele sono state chiuse per evitare che qualcuno le occupi perché è pericoloso. Eppure, c’è sempre qualcuno che stende i panni. Quando le figliə di Mirella e Felice sono cresciuti e hanno iniziato ad andare a scuola è successo qualcosa di decisivo per la nascita del Gridas e Scampia tutta. Felice lo racconta come il proprio “risveglio dal sonno”, la presa di coscienza che la scuola, unico presidio pubblico in quella distesa di case, chiusa nelle sue “costruzioni burocratiche che soffocano qualsiasi capacità d’inventiva” non riusciva a fare nulla. Lungi dall’essere in grado di interagire con il contesto in cui operava, cercare di capirlo e migliorarlo, la scuola ha rifiutato, negli anni, ogni proposta di collaborazione di Felice e Mirella – laboratori di scrittura e pittura collettiva, uso dei cosiddetti “sussidi audiovisivi”, considerazione del vissuto degli alunni nel processo educativo – attività considerate “troppo rivoluzionarie”. Come reazione, insieme a qualche altro genitore si è lanciata una prima assemblea per parlare dei problemi della scuola: si presentarono in 8.
Così è nato il GRIDAS, in via Monterosa 90/b. Si è cominciato con i murales, che poi per molto tempo sono stati l’attività principale. Funzionava così: prima si illustravano allə ragazzə diapositive per far capire le possibilità della pittura sul muro, poi ci si confrontava e insieme e si sceglieva il tema e il messaggio che si voleva mandare. Infatti i murales, che arrivarono in Italia dal Cile, dove erano usati come strumento di resistenza e coscientizzazione da parte di Unidad Popular di Allende, sono caratterizzati proprio dal fatto di avere sempre un messaggio, un contenuto politico. Erano opere veramente collettive, ed è in questo che si realizzava la loro prima utilità: dare allə bambinə e a chiunque volesse partecipare la possibilità di prendere un pennello in mano e disegnare una speranza, un’evasione dallo squallore del carcere quotidiano. Un’ “Utopia sui muri”, nome dato al libro autoprodotto sui murales del Gridas. Sui lunghi muri grigi, che non smettevano di essere costruiti, iniziarono ad apparire soli sorridenti, bambinə danzantə, persone che escono dai libri, alberi, mari, barche e animali fantastici. Immagini che parlavano di pace, di libertà, immagini contro la guerra e la camorra, di solidarietà per gli indigeni americani, di energie rinnovabili, di uguaglianza, non violenza e della cultura come strumento di rivolta. Ecco che si risvegliano le coscienze, e non solo quelle di chi partecipa alla realizzazione, ma anche di chi passa e vede. La rappresentazione su un muro, infatti, costantemente visibile, di una prospettiva diversa da quella che si ha sotto gli occhi o che non si ha affatto, è uno strumento di comunicazione alternativo e immediato e “se turba, provoca, smuove, è già qualcosa: è un aiuto, un invito a chi è scontento, come noi, a unirsi per lottare invece di isolarsi”, raccontano gli attivisti sul sito del Gridas. Ma non solo, i murales aiutano anche a creare un’identità e un senso di appartenenza ad un quartiere senza storia, abitato da persone tanto diverse in case tanto uguali.
Nell’83 è stato realizzato dal Gridas il primo carnevale di quartiere. L’idea era rivalutare la funzione originaria del carnevale, offrendo un momento di libertà nel quale esprimere, approfittando della mascheratura, la propria opinione sui fatti del giorno e il proprio dissenso dalle scelte del potere. Ogni anno si sarebbe scelto un tema di attualità sulla base del quale costruire i carri e lavorare insieme sui significati e le idee del corteo. “E poi almeno per una volta si parla di attualità a scuola, e si ascolta cosa hanno da dire al riguardo lə ragazzə. Non so se avete notato che dopo che si va a votare la scuola si pulisce particolarmente bene, credo sia perché si vuole evitare che ci entri la democrazia”, raccontava Felice a proposito del Carnevale. Oggi quello di Scampia è il più antico carnevale popolare della città di Napoli ed è riuscito a diventare, come era nella mente di Felice e Mirella, un motivo di identità e vanto per gli abitanti, una tradizione del quartiere, che viene conosciuto per altro che non sia il degrado o la droga migliore di Napoli. Scendendo con la metro a Piscinola-Scampia, oggi, la prima cosa che si vede sono le foto dei primi cortei. Poco prima della condanna di sgombero, per tornare bruscamente al triste presente, era stata realizzata la quarantesima edizione del Carnevale. È Lì che abbiamo conosciuto Aldo Bifulco, che all’alba dei suoi 78 anni si autodefinisce “un po’ un prezzemolino, il vecchio del Gridas, ma anche il vecchio di Legambiente, direi il vecchio di Scampia”. Ci racconta “Scampia ha ad oggi il numero di associazioni di volontariato più folto e significativo di Napoli e provincia, è il cuore pulsante, la madre senza la quale le altre non sarebbero nate, è proprio il Gridas” “È una periferia dove ci sono molte persone e realtà che pensano di costruire il bello dal basso, per contrastare la sedimentata immagine di Scampia come immagine del degrado e della camorra. Non diciamo che non ci sia, ma che c’è tanto altro” Per quanto riguarda il Carnevale “sulla base del tema scelto ogni associazione o classe delle scuole del quartiere (in base agli insegnanti che scelgono di collaborare) realizza, con materiali di riciclo, il proprio carro con laboratori che iniziano da due mesi prima del carnevale”. Il corteo finisce sempre con il falò a Largo Battaglia. Anche la piazza ha una sua storia : 10 anni fa era una discarica, oggi è circondato da murales sui personaggi della non violenza e da un giardino con piante da tutto il mondo. Sia i personaggi che le piante rappresentano i diversi continenti, “ma Scampia i continenti sono 6”, racconta Aldo, “il sesto è il mediterraneo che vogliamo torni essere culla della civiltà e non cimitero dei migranti”. La piazza è stata realizzata a seguito di laboratori sulla non violenza e sull’ ecologia integrale da Pangea, una rete di associazioni e scuole nata anche questa grazie al Gridas.
Oltre ad essere punto di riferimento per tutte le associazioni attive a Scampia e in tutta la periferia nord est di Napoli, e a fornire un quotidiano aiuto agli abitanti attraverso un’ essenziale attività di sportello legale, il Gridas organizza presentazioni di libri, incontri e dibattiti, e un cineforum settimanale di film “rari” perché censurati o rovinati dal tempo. Questo in un quartiere dove un cinema, un teatro, o qualsiasi altro luogo di cultura, non c’è mai stato. “È questo che stiamo facendo e che faremo. È questa la strada del riscatto di Scampìa”, si legge nel loro sito. Eppure, le istituzioni che si sono occupate di questo angolo di mondo sembra non siano mai riuscite a capire di cosa avesse bisogno il quartiere. Non ci hanno mai neanche provato a capirlo. Viene un sorriso amaro pensando che dopo qualche anno dalla sua nascita il quartiere era stato fatto studiare e “mappare” dal Centro di ricerca economica e sociale per il mezzogiorno per capire i motivi del suo fallimento – del resto evidenti data l’assoluta mancanza di infrastrutture – senza che gli studi avessero alcuna conseguenza pratica. Per lungo tempo l’unico tentativo di risposta ai bisogni reali dei cittadini sono stati enormi progetti non richiesti, costosi e assolutamente ingestibili. Come il campo di calcio da serie C per la squadra di ragazzə dell’ Arci Scampia che avevano bisogno di un banale campetto – perché quello che usavano prima era gestito da un camorrista e poi era stato coperto da altre case – a cui non poté accedere nessuno perché troppo costoso. O come lo spazio polifunzionale, costruito al confine con Piscinola, con tanto di teatro, piscina olimpionica e una biblioteca comunale senza libri, per il quale non si è mai trovato nessuno che lo volesse gestire perché “manco a Parigi tengono i soldi per gestire una cosa simile”, come disse il sindaco Lezzi invitato lì dagli stessi abitanti per assistere con i propri occhi all’inutilità di quella struttura. Nient’altro che goffi e sporadici tentativi di rappresentanza politica, dunque, per lo più in campagna elettorale, che si sono tradotti in mero spreco di materiale pubblico, quasi a voler prendere in giro lə abitantə. Lì, dove basterebbe un reale ascolto dei bisogni minimi di questi, che parta proprio dal riconoscimento delle realtà già esistenti dal territorio e dal dialogo con queste. Non certo dalla loro soppressione. Non è la prima volta che al Gridas viene intimato di fermarsi, nonostante questo abbia più volte chiesto la totale regolarizzazione – già nel ’92 in questo senso si era proposta la realizzazione di una pubblica “casa della cultura -Nuvola rossa”. Il Gridas, però, forte della comunità che lo sostiene, non si è mai arreso e oggi è intenzionato a opporsi utilizzando le vie legali. E questo perché, come scrisse Felice nel ’94, proprio in una lettera allo IACP, proprietario dell’immobile abbandonato: “Abusivo non è chi restituisce all’uso dei cittadini una struttura abbandonata da anni e ritenuta pericolosa per l’incolumità degli stessi, ma piuttosto il potere che per anni espropria i cittadini, per incuria, delle strutture che potrebbero migliorarne la vita”.
Per sfidare i giudici a negarlo e supportare economicamente il Gridas nelle spese processuali passate e future ecco il link : https://www.produzionidalbasso.com/project/ilgridasnonsitocca/.
Anna Maria Providenti