Processo al giornalismo italiano

Non é una novità che i quotidiani italiani stiano attraversando un momento di crisi: la tiratura dei giornali – tra i dati più indicativi – è in costante discesa da circa 30 anni, e così la fiducia degli italiani nei confronti dell’informazione giornalistica. Secondo il report annuale dell’Edelman Trust Barometer, in Italia quasi 8 italiani su 10 temono il proliferare delle fake news; e, per quanto riguarda l’attendibilità delle fonti, i canali di informazioni ufficiali vengono superati anche dal datore di lavoro e dal Governo. Sempre più persone preferiscono informarsi attraverso mezzi altri dal giornale, vecchi, nuovi o “rivitalizzati”; la carta stampata non sembra più adatta all’ufficio di informazione quotidiana nel nostro Paese. Ma quali sono le ragioni di questa crisi?

Si tratta di problemi che aleggiano da circa un ventennio: già nel suo Piccolo manuale del giornalismo del 2009, Vittorio Roidi lamentava la costante decrescita della diffusione di giornali in Italia, cominciata dopo il picco di 6.8 milioni di copie giornaliere nel 1990. Ma il rammarico mostrato allora da Roidi verso tirature dell’ordine di 500-600 mila copie giornaliere appare oggi un letto di rose: anche i più grandi giornali italiani superano di rado le 300.000 copie stampate al giorno – e un numero sempre crescente non viene acquistato. 

Ma ci si chiedeva, appunto, delle ragioni della crisi. Da un punto di vista politico, Mani Pulite può aver contribuito a delegittimare quel mezzo d’informazione attraverso cui, al tempo, si esprimeva la maggioranza della classe politica; ma la spallata definitiva deve essere arrivata dallo sviluppo tecnologico incrociato all’utilizzo della Rete. L’influsso esercitato da questo fattore, però, non è così univoco come sembra: Internet non si è limitato a “erodere” la fetta di mercato dell’informazione tradizionalmente riservata a mezzi più antichi; ma ha anche permesso, in buona misura, di rinnovare i mezzi stessi, e di consentirne una diffusione davvero globale. Ecco allora che, al giorno d’oggi, un quotidiano autorevole come il New York Times può vantare una tiratura di quasi 5 milioni e mezzo di copie giornaliere, delle quali più di 4 milioni e mezzo sono soltanto digitali.  Perché allora Corriere della Sera e Repubblica, anche conteggiando le copie digitali vendute (di rado sopra il 40%), sono così lontane dai numeri dei tempi d’oro?

Credo che, in ultima analisi, la bassa qualità del giornale digitale italiano rispetto ai concorrenti europei sia il principale responsabile del declino. Questa bassa qualità non è certo frutto di mancanza di mezzi tecnologici; e l’ostacolo linguistico che limita la diffusione dei giornali italiani non può essere certo considerato determinante. Mi sembra invece che l’arretratezza dei giornali italiani debba essere imputata in primo luogo ai direttori responsabili e ai consigli di amministrazione delle testate, che sono stati colti alla sprovvista dal repentino cambiamento di paradigmi di produzione e fruizione delle notizie. Questa la ragione per cui, oggigiorno, in campo digitale la maggior parte delle testate italiane si muove alla cieca e senza un serio progetto riformativo, limitandosi a tappare le falle più evidenti. Possiamo riassumere in cinque punti le criticità del giornalismo italiano di oggi: il ripensamento della gerarchia tra cartaceo e digitale; la qualità intrinseca degli articoli; la qualità dei giornalisti che compongono le redazioni digitali; la modificazione dei lavori presenti all’interno di una redazione; il ruolo dell’Ordine dei Giornalisti.

Anzitutto, in Italia la maggior parte delle redazioni lavora prima al giornale cartaceo e poi al giornale digitale; il che, se permette (almeno in teoria) di avere un prodotto cartaceo di buon livello, sacrifica il giornale digitale che spesso si limita ad essere un “giornale cartaceo elettronico”. Una riproduzione anastatica, però, non può che essere obsoleta, perché non sfrutta affatto le potenzialità del mezzo di arrivo, che diventa un semplice contenitore di informazioni. Questo spiega perché in Italia siano sbarcati così tardi i grassetti, la divisione in paragrafi più brevi, i collegamenti ipertestuali, la barra di avanzamento e tutti gli altri strumenti propri del mezzo digitale. Peraltro, molte testate non hanno recepito la differenza che c’è, nella transizione da carta a schermo, tra un’informazione esclusivamente passiva e un’informazione attiva, alla pari, che si presta a critiche e correzioni; il ritardo, la maniera raffazzonata con cui questi fora di discussione si sono sviluppati (o in alcuni casi devono ancora svilupparsi) non ha fatto altro che allontanare la comunità dei lettori e i giornali. In generale, in Italia sono rari, tardivi e spesso non originali i casi di un progetto radicalmente multimediale, in cui diverse redazioni, alla pari, lavorano per adattare la stessa notizia alle peculiarità dei diversi canali di informazione. 

La qualità intrinseca degli articoli ha giocato una parte importante di questa partita del declino. Se infatti i giornali cartacei, almeno nelle prime pagine, riescono a mantenere un certo decoro, si può dire che la situazione in Rete è completamente allo sbaraglio: ogni giorno anche i quotidiani più prestigiosi pubblicano decine e decine di articoli di qualità imbarazzante. Ciò dipende anzitutto da uno standard rapace di “occupazione dell’informazione”, sviluppatosi forse per fronteggiare gli assalti della stampa (anche in rete) gratuita: per la maggior parte dei direttori non è importante parlare bene di una notizia, ma essere i primi ad accaparrarsela; di qui nasce la richiesta di articoli rapidi e frammentari, che spesso non risultano buoni nemmeno per soddisfare la curiosità suscitata dal titolo del pezzo. È facile capire quale fine faccia la reputazione (per non parlare della linea editoriale) delle testate coinvolte in un simile commercio di notiziette – e che dire delle continue pubblicità?

A questo problema se ne lega a stretto giro un altro, relativo alla qualità dei giornalisti assunti: nel corso degli anni, per sopperire all’ossessivo bisogno di notizie fresche, le redazioni digitali hanno assunto cani e porci, senza il minimo riguardo all’effettiva capacità dei suddetti di scrivere un articolo. Anche il novellino, oggigiorno, può essere assunto all’interno di una grande testata; a patto che non si aspetti di lavorare come i giornalisti di trenta o quarant’anni fa. Al giorno d’oggi la maggior parte dei giornalisti lavora “ad orario”, rimanendo attiva sulla Rete per un certo periodo di tempo (poniamo, dalle 10:00 alle 18:00) a caccia di qualunque informazione che possa far notizia. Questa pratica va a tutto scapito non solo della qualità “grammaticale” dell’articolo, ma soprattutto della qualità “organica”: si tratta di una forma di lavoro che incoraggia il giornalismo di seconda mano, cioè quel giornalismo che si affida non a una visione autoptica, de visu dei fatti, ma al modo in cui essi vengono diffusi (e cioè: filtrati) da qualcun altro. La dipendenza che per esempio oggigiorno si osserva nei confronti delle agenzie di stampa come ANSA e Adnkronos, unita alla progressiva scomparsa del reporter, deve essere guardata con preoccupazione, perché costringe il flusso di informazioni a passare lungo “colli di bottiglia” facili da manipolare.

Un mutamento importante ha investito la ristrutturazione dell’organico di una redazione. In questi ultimi anni è cresciuto a dismisura – e giustamente – il posto riservato agli impaginatori, ai gestori delle pagine social, ai designer; ma questo è andato a discapito di lavori un tempo considerati fondamentali, come il correttore di bozze. Possiamo dire che oggi, nelle redazioni dei giornali, si stanno attuando insomma due trasformazioni parallele: da una parte, si procede verso un lavoro che da “liberale” si sta facendo impiegatizio; dall’altra è chiara la tendenza a concentrarsi sulla forma piuttosto che sul contenuto. Non è la sede giusta per discutere della responsabilità di lavori come il titolista; ma la direzione del cambiamento è piuttosto chiara. 

Merita qualche parola anche l’Ordine dei Giornalisti. Cronicamente incapace di difendere la libertà dei giornalisti da poteri privati e pubblici (leggasi: Mediaset e Rai), l’Ordine si è dimostrato buono soltanto a comminare espulsioni nel corso, in verità non troppo lungo, della sua esistenza. E, oggi che l’avvento di Internet consente a tutti di improvvisarsi giornalisti con un click, il suo ruolo appare piuttosto obsoleto, una formalità buona forse per sfruttare qualche inesperto tra praticantato ed esame di Stato.

Dopo aver passato in rassegna le principali criticità dei quotidiani italiani, mi sembra opportuno proporre qualche prospettiva.  Risulta chiaro che sul medio periodo – e forse anche prima – i giornali cartacei spariranno quasi del tutto: le notizie su Internet sono più veloci, più accessibili, più interattive. E il giornale cartaceo non potrà mai possedere queste qualità. Un aiuto per comprendere in che direzione bisogna muoversi può arrivare forse dai settimanali e dalle riviste di settore, che diversamente dal quotidiano hanno tenuto duro e in qualche caso invertito la tendenza. Queste riviste si differenziano dal giornale perché si rivolgono a un pubblico molto specifico, hanno una precisa linea editoriale e non puntano sulla velocità dell’informazione, ma anzitutto sulla qualità; non fanno che un utilizzo saltuario di informazioni di seconda mano, producono testi complessi e articolati che soddisfano le esigenze di ogni fruitore. Il giornale potrebbe imparare molto dai settimanali: deponendo i formati mastodontici di 40 e più facciate senza contare inserti e promozioni, il giornale potrebbe snellirsi, tornando ai formati minori ancora tanto diffusi nel secolo scorso; in questo modo si garantirebbe una qualità maggiore agli articoli, e per il direttore tornerebbe possibile vagliare per intero il giornale e imporre una precisa linea editoriale.  Quale il criterio di scelta degli articoli? Si potrebbe dare più spazio all’opinione, presupponendo che la notizia sia già arrivata alle orecchie del lettore per altre vie. Un ultimo pensiero riguarda le modalità di acquisto del giornale. Fino agli inizi dell’Ottocento la stampa era principalmente diffusa per abbonamento; è con l’avvento della penny press che nasce un nuovo modo di vendere i giornali, fatto di acquisti giornalieri, edicole e strilloni; metodo che sembra in decisa regressione all’estero, mentre in Italia stenta a decollare. Ripensare con serietà alle campagne di abbonamento ai giornali è uno dei primi modi per rispondere alle esigenze dei lettori del XXI secolo. Di fronte alla crisi del quotidiano si aprono molte vie: alcune di declino completo, altre di cambiamento più o meno radicale. Non è facile capire quale strada imboccherà il nostro Paese; di sicuro, però, ogni rinnovamento dovrà confrontarsi con la famosa tesi di Marshall McLuhan secondo cui il medium è il messaggio. Questo pensiero è fondamentale non solo per capire come approcciarsi a un canale giovane e fiorente come Internet, ma anche per elaborare strategie per rinverdire un canale antico – e però insostituibile – come la carta.

Francesco Faccioli

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