Occasioni

La mattinata era scivolata liquida tra i mille impegni da troppo tempo prorogati e non degnati della necessaria attenzione richiesta. Il vorticoso movimento della metropoli sembrava d’altronde non accorgersi nemmeno di quella individualità uscita dall’alto edificio,tutto vetro e acciaio al 365 di Mercury Street.

Non interessava proprio alla città, non le sembrava affatto utile investire tempo nella ricerca di un significato da attribuirle. L’aria fredda e pungente di fine novembre gli sferzava la faccia tanto da imperlargli le ciglia di lacrime fredde, e nemmeno il lungo cappotto grigio di feltro ribattuto lo proteggeva completamente, mentre veloce svoltava all’angolo con la Brown.

Era riuscito giusto a percorrere un paio di isolati, costeggiando il grande parco posto nel centro della zona finanziaria, quando l’aumentare dell’intensità del vento e la pioggia, che progressivamente si era fatta battente, lo costrinsero a rifugiarsi nel caffèposto all’angolo estremo della Princeton.

Ci era passato davanti almeno una dozzina di volte e, benché si trovasse sul tragitto verso casa, non lo aveva mai degnato nemmeno di uno sguardo fuggevole. Non era certo quello un posto adatto a gente come lui. Aperto non si sa bene in quale anno, in una zona della città all’epoca appartata, era stato col tempo fagocitato dal roboante avanzare del quartiere finanziario. Sorgeva quasi incastonato a forza nel pianterreno di un elegante palazzo di inizio Ottocento con i tratti caratteristici propri di un edificio delle grandi capitali europee, a cui evidentemente tentava di rifarsi, sviluppandosi – come detto – in posizione angolare. Le vetrine ampie e luminose, bordate di legno, e la lavorata porta tinteggiata di un pastoso color bordeaux non avevano nulla da spartire con il paesaggio urbano circostante, cresciuto nei decenni successivi la sua apertura.

In posizione precaria spinse con la spalla sinistra la porta per entrare. Aveva il resto del corpo impegnato a sorreggere lo zaino di cuoio che gli premeva sull’omero destro e gli arti privi della sensibilità necessaria, irrigiditi com’erano dal freddo bruciante. Un intenso profumo rivelatore di cannella si insinuò tra le sue narici, colpendolo violentemente nella parte frontale del cervello e facendogli aggrottare le sopracciglia, arricciando il naso. Il benvenuto fu così piuttosto inaspettato e allo stesso tempo straniante. Come suo solito, scrutò velocemente l’ambiente che si sviluppava su due lati sì da formare una elle, avvolto da una fumosa penombra, per individuare un tavolino libero a cui sedersi. Non ce n’erano, ma in compenso trovò una profonda poltrona di pelle, posta nell’angolo di destra, a lato dell’alto bancone. Ordinato un caffè lungo, decisamente amaro, si lasciò sprofondare nella poltrona. Aveva il cuscino sfondato, il che non rese certo piacevole la seduta, né attutì l’impatto con la struttura di legno. A giudicare dallo scricchiolio dei piedini tarlati e dalle screpolature superficiali del rivestimento borchiato in ottone, quel pezzo d’arredamento doveva essersi trovato già lì all’apertura del locale. Nonostante ciò, quella scoperta scomodità aveva incontrato il suo gusto, quasi fosse sorprendentemente conciliante. Bevve il caffè senza troppo rifletterci su e si preparò ad uscire nuovamente.

Il temporale, clemente, aveva deciso di fissare una tregua. Un piacevole odore di erba bagnata saturava l’aria mentre, lungo la via di casa, il celere tramontare del fievole sole tardo autunnale aveva lasciato spazio nel cielo all’accendersi delle prime timide stelle, quasi ovunque nascoste dalle mai stanche luci cittadine.

Dopo aver fatto le ripide rampe di scale e avere lasciato chiudersi dietro di sé la porta, si rese conto di essersi completamente dimenticato di Emily. L’aveva conosciuta il venerdì pomeriggio andato, al solito locale in cui si recava verso le sei e un quarto, in seguito alla chiusura dei mercati azionari. Le si era avvicinato mentre lei – alta ed estremamente raffinata nel suo completo grigio chiaro, che ne faceva risaltare le forme eleganti – mentre lei – dicevo – torreggiava lo spazio dominandolo, quasi corpo estraneo in un ambiente sovraffollato di cravatte come quello. Al secondo gin tonic e dopo tre quarti d’ora di chiacchiere banali e decisamente disinteressate sulla spregiudicata conquista economica cinese, la serata si era conclusadopo aver fatto le ripide rampe di scale a casa sua, come solito, d’altronde. Il mattino seguente aveva giusto fatto in tempo a sentirla mentre bellissima usciva in una nuvola di vapore dalla doccia e, affacciatasi alla camera da letto, gli ricordava di scriverle.

Ecco, si era dimenticato, d’altro canto era passata ormai una settimana e francamente non gli sembrava affatto proficuo ravvivare quel contatto, anzi si sorprese quasi per essersi ricordato del nome, cosa a lui certo non usuale. Sarebbe molto probabilmente stata sostituita il venerdì successivo da un altro tassello del quadro abitudinario; quello era il privilegio che il proprio ruolo sociale gli imponeva di seguire.

Ciò che infatti temeva più di ogni altra cosa era l’essere spettatore della vita, restando in eternità a fissare un balcone la cui luce ormai non si accendeva più. Queste continue intermittenze erano ,al contrario ,espressione della necessità di inizi sempre nuovi, quasi una serie di incipit che si rincorrevano senza mai abdicare ad uno svolgimento compiuto. Atti mancati di scoprire cosa si celasse dietro le prime righe di un incontro.

Contro ogni propria regola di condotta e spinto ancora una volta dal vento gelido che lo investì all’uscita dall’edificio al 365 di Mercury Street, il giorno seguente entrò nuovamente nel luminoso caffè all’angolo estremo con la Princeton. A richiamarlo forse era stato inconsciamente quel pungente odore di cannella che l’aveva accolto al suo ingresso la sera passata. L’argenteo richiamo della campanella posta alla sommità della porta avvertì i presenti del suo ingresso. L’ambiente era al contrario piuttosto spoglio rispetto alla ressa del giorno precedente. Nonostante ciò, scelse di provare una volta ancora la rassicurante scomodità della poltrona d’angolo. Da quella sua postazione appartata – per questo privilegiata – lo sguardo aveva un angolo di incidenza tutto particolare sul reale. Si accorse sorpreso di star fissando da qualche minuto di troppo i raggi del sole che tiepidi, filtrando dalle ampie finestre angolari, rivelavano le colonne di pulviscolo che, come forme dotate di una propria vita si animavano spiraliformi all’entrare di nuovi ospiti nel locale.

Fu in quell’attimo che, attirato dal brusio di alcuni clienti, volse lo sguardo verso l’alto bancone. Qui un gruppetto di ragazzi piuttosto trasandati nel vestire, ma frizzanti negli atteggiamenti, scherzavano con una ragazza di spalle dietro la caffettiera. Il loro abbigliamento e la confidenza sprigionata dalle poche parole che riuscì a carpire glieli fece inquadrare come clienti abituali del luogo e probabilmente amici di vecchia data della giovane. Il suo sguardo si spostò in modo istintivo dal gruppo, posandosi dolce sulla ragazza. Il pensiero gli attraversò rapido la mente, come un soffio di brezza marina e si andò ad adagiare sullo scoglio della consapevolezza. Dal suo angolo di locale sprofondò compostamente nella poltrona e, torcendo dolcemente la testa, si mise a fissare la ragazza con maggiore attenzione. Sebbene ci fosse già entrato la sera precedente, tuttavia non l’aveva mai percepita scuotere le proprie certezze; ora invece tutto sapeva di mare. Era meravigliosa nella sua essenzialità: il volto ovale dalla carnagione chiara faceva risaltare i preziosi occhi di un verde oltremarino; i capelli castani, mossi da un lieve accenno di ricciolo, erano poeticamente raccolti da una grigia fascia di tela grezza. Tutto in lei sapeva di pace, la respirava, spettatore della vita quale si ritrovava. Ne percepiva le lunghe ciglia: guardia agli smeraldi; le chiare lentiggini, appena accennate: ridente presagio. La canottiera lasciava scoperte le giovani spalle che facevano capolino da dietro il bancone. Benché lontano, in un angolo, ne coglieva le movenze leggere ed il sorriso di mandorle bianche. L’aria illuminata dagli obliqui raggi di quel sole pomeridiano di inizio dicembre profumava di vita, ricca com’era di potenzialità. Le certezze ormai si facevano di momento in momento più stabili, nessuno più viveva per se stesso, ma la biologica simbiosi del sentimento si stava posando come polline sui loro capi: un sorriso si aprì spontaneo all’incontro degli sguardi. Tutto in un attimo, poi la sua indifferenza altezzosa lo fece volgere altrove.

Un profumo sinestetico pervase le narici e lo spinse lontano. La memoria si fece odore e l’odore divenne ricordo. In un attimo tutto era tornato indietro ed era terribilmente presente.

Asfissiato uscì dal caffè.

Nelle settimane successive si tenne lontano dall’angolo di Princeton Street, scombussolato com’era stato da quella novità rivelatrice. Ciononostante il ritorno metodico a Jo – questo il nome della ragazza del caffè che era riuscito a carpire dalla frizzante conversazione con il trasandato gruppetto di ragazzi – era fonte per lui di sicurezza.

La prima neve era caduta a ricoprire i rami degli alberi ormai spogli, mentre il fiato ghiacciato dei passanti indaffarati si faceva fumo.

Il venerdì sera successivo fece ritorno al caffè.

Il cigolio dei cardini della porta gli diede il benvenuto, lo accolse come di consueto il pungente profumo di cannella che saturava l’aria calda dell’interno, mentre dal canto suo la vecchia poltrona lo attendeva vuota alla convergenza angolare delle due vetrine illuminate. Tutto ormai aveva il sapore del familiare.

Sconcertato dalla generale mancanza di opposizione, quasi moto di ribellione nei confronti della società della tecnica, dominata dal concetto di utile di cui faceva parte, rivolse il pensiero all’inutile: elemento scardinante di evasione.

Alla poesia.

La sua mente razionale provò ad indagarne i confini sfuggenti, per loro stessa natura inafferrabili.

 

Poesia

è

squarcio momentaneo

e sfuggente

nel tessuto della

giornata.

Necessità di

scolpire le

parole,

di tessere

l’arazzo dell’espressione.

È uno

sguardo oscuro

sulla chiarezza

dei sentimenti.

Questo ritaglio di inutilità era acqua e aria per la sua nefeš ebraica, non tanto anima, quanto piuttosto vita. L’atto religioso della scrittura attimale condensato in quella suggestione trovava perfetta corrispondenza nella figura di Jo, su cui proiettava un animo bellissimo e un’immensa saggezza. Questa diversa prospettiva era come una virgola: porta girevole del suo pensiero.

I movimenti quasi vitali del caffè sul fondo della tazza lo fecero tornare in superficie, sì da respirare a pieni polmoni. Sentì questi schiudersi, quasi a rompere un sigillo, come fosse stata la prima volta. In risposta a tutto ciò gli risuonavano in testa versi antichi e dimenticati: Che tu sei qui che la vita esiste, e l’identità… Aspettò Jo. Che il potente spettacolo continua… L’argenteo suono della campanella preannunciò la chiusura della vecchia porta bordeaux. E tu puoi contribuirvi con un verso. Le strade rilucevano nella sera come iridi trascorrenti; insieme si allontanarono lungo il parco, mentre lo scricchiolio della neve fresca risuonava sordo sotto i loro piedi.

Pietro Ruggeri

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