
IL RISVEGLIO
I piedi lo osservavano con curiosità dal fondo del materasso, sgattaiolati fuori come due furetti, orfani della loro madre.
Robert fissava il vuoto oltre il muro bianco della stanza, già da qualche minuto. Il distacco da quel contesto era evidente. La sua testa vaneggiava, la sua mente brancolava, confusa dall’opacità di quel maledetto sole: malato e piegato su sé stesso, appena sorto dagli abissi gelidi dell’autunno polacco.
Faceva dannatamente freddo lì dentro. Il suo corpo implorava pietà, il silenzio lo ascoltava impassibile. Quell’appartamento, opera di un imbianchino ricco di apatia, non dava segnali di sorpresa , al lato di Robert poggiava una lampada, indifferente: non era certo lì per compassione, non ne provava alcuna. Il soffitto, indaffarato a riflettere sé stesso sul pavimento, gravava sull’esile corpicino del ragazzo.
Ancora mancava una spiegazione per tutto questo “non-detto”. L’unica certezza che illuminava il viso di Robert era una personale constatazione, tutt’altro che sicura: ciò che lo aveva trasportato in quell’angolo non era il caso, né il mistero. Quest’ultimo, infatti, non possiede né capo né coda, non c’è causa perché l’effetto è variabile, incalcolabile, irraggiungibile. Doveva trattarsi di un enigma: un processo logico-razionale dotato di una serie d’indizi, tracce, che ci riconducono indirettamente al punto del problema.
Una motivazione c’è! La causa è reale!
Convintosi della validità del ragionamento, vedeva il passato tentar di assumere una forma riconoscibile tra le frasche del suo labirinto cerebrale. Era affamato di ricordi, in quel risveglio bislacco. Ogni azione compiuta da quel momento in poi doveva rispondere a tormenti irrisolti e consumati poche ore prima, forse ore di buio, di rimpianti, di leggerezze, soffiate via dal vento pungente d’inverno. Tutte da ricalcolare.
La calzamaglia, donatagli dalla nonna prima del viaggio, tagliava fuori dalla stoffa i piedi e raggiungeva con fatica il suo ombelico, colto in pieno letargo: unica macchia nera in un deserto tremendamente sterile, avido di colore. Le dita delle mani, ingarbugliate come matasse, palpavano disperate lungo la superficie legnosa del comodino, posto sotto lo scheletro del letto, alla ricerca degli occhiali da vista. Imprescindibili per la miopia del ragazzo.
Ci fu un balzo irriverente ed inaspettato giù dal materasso di piume, e la disperazione accolse tra le sue braccia Robert: le lenti, frantumate in interminabili scie di vetro, decoravano il pavimento impolverato della stanza. Un mosaico composto, e poi scomposto, da quelle nebbie che tenevano in scacco la sua memoria.
L’immagine che prendeva vita dalle sue sensazioni era ben chiara. Un marinaio furente, con la pipa inzuppata d’acqua tra le mani, a corto di reti da gettare in mare, insoddisfatto della sua barca, tediato dal fallimento, scoraggiato da uno scirocco in vena di scherzi. Qui sedeva la sua autostima, in un disegno distorto, martoriato da ripensamenti creativi, accarezzato dalla brezza della speranza.
D’altronde, la sua giornata non aveva ancora spiccato il volo che già implorava un atterraggio furtivo e vigliacco tra i rovi della sua anima, intrappolata com’era in quella gabbia inespressiva in cui alloggiava da qualche minuto…o forse qualcosa di più? Preso dal panico, cominciò a frugare nelle tasche dello zainetto. Pochi istanti dopo, seduto sulla sedia di fronte alla scrivania, cominciò a scrivere freneticamente. La penna tracciava strade bluastre su di un foglio bianco…aveva tutta l’aria di una testimonianza, o meglio, di una traccia di esistenza. – Inspira, espira; inspira, espira; inspira, espira; inspira…-, da sempre, da quando convinse sé stesso, era il metodo riabilitativo preferito per rievocare certe immagini vivide, ma nascoste scrupolosamente dietro i muri di cartapesta del suo cubo delle meraviglie.
Andò avanti per minuti, poi mezz’ore. L’immutabilità di quel paesaggio di cristallo lo manteneva concentrato su quella impronta cartacea, ormai soffocata in ogni suo angolo dall’inchiostro della penna. Accerchiato da un’aria ripetuta e stagnante, in una stanza priva di sbocchi esterni e con il polso ormai insensibile, Robert depose l’ascia di guerra sulla scrivania. L’abbandono prese il posto della furia. Qualsiasi bisogno primordiale pareva discioltosi in quell’ardore. Un fuoco fatuo rassegnato a rimanere leggenda popolare. I suoi occhi, però, continuavano ad agitarsi, in cerca di una risposta da decodificare in quel caos malato, dal cuore di seppia. Pareva fossero organi di un’altra persona, impiantati in un corpo arrendevole, inerme, già domato dal vuoto dell’incomprensione. Il moto generato da quelle parole era tremendo, una melodia lenta e compassata, capace di ipnotizzare chiunque osasse volgerle attenzione.
Robert si tirò su. Allontanò lo sguardo da quelle macchie, e con intento di cacciatore, individuò la sua preda: il torpore svanì dal corpo come ghiaccio sul fuoco: la visione d’insieme, quella periferica, lo fece ricordare.
UNA NOTTE POLACCA
Tacco e punta si davano il cambio, schizzati, disegnando fini traiettorie sulla pista da ballo. Un oceano d’ossidiana donava grazia al suo corpo frizzantino. Non era la compagnia a farlo sentire soddisfatto, né a rendere imprevedibili i movimenti su quel palco. Era la musica, e la convinzione di esser il solo a seguire i moti naturali del cuore.
La disco, poco pretenziosa, imbastiva nel suo covo un concerto di luci, urla e risate da scena cult. Nei nervi di Robert l’adrenalina spintonava se stessa per cercar di uscire e dar sfogo a rimpianti repressi dall’indifferenza, dalla voglia dannata di mascherare sé stessa. Portata in vita da quel locale estremamente losco, raggiungibile solo da una interminabile scala a chioccia, diretta nei bassifondi della periferia di Varsavia, era una festa anni 2000. L’atmosfera, da film cult come già detto, somigliava più ad un ritrovo tra reduci di guerra. Il calore umano desiderato e accudito nelle volontà dei ragazzi finiva per rabbrividire per colpa dei ricordi indelebili di un passato straziante, che incatenava la libido nelle piante dei piedi, i soli autorizzati a cantare sulle note elettrizzanti della sala, in una notte polacca come tante altre.
Robert si agitava senza sosta tra quelle anime congelate, fino a che, devastato dalla cappa di calore creata dalla ressa, si decise a levarsi il maglione di dosso, lo legò stretto al ventre e appoggiò le braccia lungo la lucida transenna metallica alle sue spalle. La prima pausa della serata.
L’affanno dei polmoni lo fece inspiegabilmente rilassare, mentre i suoi occhiali, appannati dall’umidità e scivolosi per il sudore erano solo un impedimento per ciò che stava osservando. Una parete del locale, all’apparenza oscura e senza segni, rivelava scritte indecifrabili e poco ortodosse, accavallate con ira una sopra l’altra, come un impero di formiche, che imbrattavano il muro in ogni suo angolo. Quello che il ragazzo fissava era un murales camaleontico, pulsante a ritmo pop nelle sue pupille, tanto da lasciarlo sbalordito. Smise di dare retta alle sceneggiature che la mente gli suggeriva, che quel locale gli suggeriva.
– Questo è puro caos – pensò frettolosamente, facendo roteare le pupille come trottole dissennate, in cerca di un appiglio di senso compiuto in ciò che stava di fronte a lui.
Inconsciamente, i suoi occhi si fermarono, ma non su ciò che si aspettava di bloccarsi. A pochi metri da lui, nello spaccato più tenebroso del palco, un ragazzo in camicia floreale dai chiari lineamenti orientali, ondeggiava con ritmo tutto suo sulle note elettriche di “Empire State of Mind”. Catapultato in un contesto stonato, polacco, occidentale e ricco di moralismi discutibili, “Stick Man” (così la coscienza suggeriva il nome a Robert) pareva interpretare il ruolo di buffo intrattenitore. Assente, però, era il pubblico: troppo “adulto” e incapace di accennare un sorriso beffardo al povero teatrante. Attorno al suo viso rimaneva incollato un sorriso anomalo, quasi un goffo tentativo di difesa della dignità, ma tradito costantemente dalla palese ricerca di un contatto con l’altro, con puntualità ignorato. Di qualunque natura potesse essere quel contatto. Il ballo di un appestato in un circolo di sordomuti.
Non riusciva a distogliere gli occhi da quell’uomo così fuori ruolo. Con inspiegabile lucidità, nonostante l’espressione dei gesti non accennava ad alcun tipo di intesa, Robert riconobbe una certa assonanza tra lo stato d’animo dello “Stick Man” con il suo. Proprio come due strade parallele, le quali, seppur siano consce di non potersi toccare, si osservano l’un l’altra: due compagne di banco che lasciano al destino il compito di determinare la loro carriera.
Eppure, non se ne capacitava. Come poteva, un soggetto simile, aver deciso per sua spontanea volontà di gettare nel cestino la vergogna? Senza provare una superficiale nota di pentimento? Così, l’ennesimo dubbio, pescato dalla carrellata delle riflessioni di serata, venne a galla con prepotenza: – E se fossi io stesso il REALE intruso? -. Eh sì, quel dubbio di cui il disagio si nutre ogni giorno, sia che lo nasconda sotto il sedile della utilitaria, sia che lo infili tra le fessure del sofà di casa, sia che lo ripieghi tra le pagine del diario.
La sala da ballo profumava ancora di oscurità, ma Robert non poteva nascondersi, nemmeno dal buio. Non più.
“Stick Man” fu l’unica persona che riuscì a guardare dritta negli occhi: gli fece scoprire l’asso che si celava sotto la manica delle sue più intime illusioni. La vergogna lo divorava, proprio lì, in quel momento di disordine. Gli stereo domavano come sovrani sulla folla, agitando gli animi con urla sonore strazianti, ma non acute abbastanza da giungere alle orecchie di Robert, ormai sprofondato nella vacuità della sua coscienza.
Il tetto, d’un tratto, si sgretolò sulle teste dei ragazzi. Quiete.
Robert percepiva l’alluce destro muoversi con timidezza dal fondo del letto. Opaca luce del sole ovunque. Opaca quanto la sua vista, in mancanza degli occhiali…e gli occhiali?
Un sospiro intenso si diffuse nella camera di perla: erano proprio lì, sul comodino.
Nicolò Bartolini