
Sergio Mattarella è stato rieletto Presidente della Repubblica con 759 voti all’ottava votazione del parlamento riunito in seduta comune. Quello che all’inizio della settimana sembrava uno scenario poco probabile, vuoi per il ripetuto rifiuto esplicitato da Mattarella, vuoi per l’avversione tacita e mai espressa di alcune forze politiche, è diventato ultima possibilità e poi realtà nella serata di venerdì. Era l’epilogo più semplice e più ovvio viste le dinamiche politiche ma il percorso di trattative-riunioni-veti che ha portato al Mattarella-bis è stato più che complicato anzi, quasi incomprensibile. Cerchiamo di mettere ordine in una settimana di trattative politiche dominate dal caos e da protagonismi. La discussione sull’elezione del Presidente della Repubblica è stata sempre rimandata a data da destinarsi da tutti i leader politici giustificando il rimando all’emergenza che il paese stava e sta attraversando. Avvicinatasi la data ecco che il paese viene tenuto in stallo dalla candidatura di Silvio Berlusconi. Candidatura di cui tutti sapevano quale sarebbe stato il risultato ma che ha monopolizzato le trattative fino all’ultimo giorno prima delle votazioni. Era stata definita la “missione scoiattolo”, un’operazione strategica per trovare voti alla quale credeva forse solo l’ex premier e né il suo staff e né i suoi alleati hanno avuto la forza politica di metterlo davanti alla realtà. Ultimo atto di presunzione e di megalomania di un politico ormai arrivato al capolinea del suo viaggio. Nonostante ciò il paese ha dovuto aspettare per una settimana affinché arrivasse la ritirata da parte del cavaliere, un’uscita di scena fatta per “responsabilità verso il paese”, ultimo grande gesto da statista di Silvio Berlusconi. Tutte formule usate per mascherare la definitiva caduta dal suo destriero del cavaliere. Dopo di che sono iniziate le trattative in un campo politico che presentava questo scenario: da una parte c’era il centro-destra capitanato da Salvini che affermava con forza la possibilità che il Presidente della Repubblica potesse essere espressione del centro destra; sull’altrolato il centrosinistra continuava a ripetere che in parlamento nessuno aveva i numeri per l’elezione del Presidente e che si doveva trattare per trovare un nome condiviso. Posizione corretta perché in un parlamento così frammentato come quello di oggi, nessuna forza politica avrebbe potuto esprimere da sola un candidato che avesse possibilità di essere eletto. Si è arrivati così ad una serie infinita di nomi che venivano presentati e che duravano qualche ora per poi essere sostituiti da altri nomi e così via. Giuliano Amato, Marcello Pera, Nordio, Casini, Casellati, Belloni, Frattini, Andrea Riccardi, Maddalena, Sabino Cassese, per citarne alcuni. Tutti nomi che sono stati bruciati, messi lì senza una vera e propria candidatura supportata da un partito o da una coalizione. Tutti nomi che ruotavano intorno a due nomi principali, come i pianeti ruotano intorno al sole, ovvero Mattarella e Draghi. All’inizio tutti affermavano che Mario Draghi dovesse rimanere a Palazzo Chigi per la stabilità del paese e per evitare un’eventuale crisi di governo. Ma col passare dei giorni l’ipotesi Draghi ha preso sempre più piede, ipotesi resa probabile sia dall’inespresso rifiuto del Premier e sia dall’apertura fatta da alcune forze politiche. Sembra che Mario Draghi ambisse al quirinale ma stavolta la politica si è messa di mezzo, dimostrando quella avversione contro i tecnici che dopo un periodo di convivenza la politica manifesta naturalmente. Nel gioco delle parti l’attuale Premier è stato inghiottito e fagocitato dal mondo delle trattive e dei giochi politici ai quali lui è estraneo. Posizione quella di Draghi che ha dimostrato una contraddizione nel suo percorso. In una conferenza stampa lui dichiarò di essere “un nonno a servizio delle istituzioni” ma questo servizio sembrava essersi trasformato in ambizione in questa settimana. In nome di un’ambizione il paese rischiava di cadere in una crisi di governo, e quindi elezioni anticipate, nel bel mezzo della quarta ondata e nel periodo di lavoro per l’attuazione del Pnrr. Inoltre il passaggio di un premier al quirinale sarebbe stato alquantoambiguo a livello costituzionale e avrebbe potuto spostare la nostra repubblica parlamentare verso un semi-presidenzialismo di fatto. Tutto ciò, fortunatamente, non è avvenuto perché le forze politiche non sarebbero state capaci di trovare un accordo di legislatura per portare a termine l’operato del governo fino al 2023e i parlamentari non avrebbero supportato la candidatura di Draghi. Sfumata l’ipotesi Draghi ecco che riprende l’azione di “kingmaker” (così è stato definito da tutti i media nazionali) di Matteo Salvini. Lui si è incaricato di guidare il centro destra nelle trattative, fallendo miseramente. Prima il centro destra ha tolto dal cilindro la rosa dei tre nomi costituita da Nordio, Pera e Moratti. Nomi che non sono stati concretamente supportati. Poi nella serata di giovedì decidono di proporre di forza la presidente del senato Maria Elisabetta Casellati. Era evidente anche in questo caso che la seconda carica dello stato sarebbe stata l’agnello sacrificale. Infatti la Casellati ottiene soltanto 382 voti e non raggiunge nemmeno il quorum per essere riproposta. Bruciata e umiliata la Casellati si ritorna nel caos. Per tutta la settimana il nome di Pierferdinando Casini è stato al centro della questione, volto della politica tradizionale e antiquata che nessuno ricordava prima di questa settimana. Ultimo colpo di coda della Lega è stato proporre Elisabetta Belloni, capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), i servizi segreti italiani. In questo tentativo di spallata al centro sinistra Salvini sembra che sia stato appoggiato da Conte, non si capisce perché il capo del M5s tenda ancora a pendere verso quella che era stata la coalizione del governo giallo-verde. La candidatura della Belloni ha fatto nascere altri interrogativi: potrà mai un capo dei servizi segreti di una nazione, che non ha mai fatto politica, diventare capo dello stato? Domanda la cui risposta è ovvia. Fallito quest’ultimo tentativo, nella giornata di sabato le forze politiche della coalizione di governo sono converse sul nome di Sergio Mattarella. Alle 15.30 di sabato i capigruppo parlamentari sono saliti al colle per proporre ufficialmente al presidente la rielezione. Mattarella ha accettato dicendo “se serve ci sono” e il resto è storia.
Durante questa settimana abbiamo sentito innumerevoli volte le espressioni: “anche una donna”, “dobbiamo eleggere una donna”, “basta che sia una donna”. Tutte espressioni di una politica che voleva presentarsi come innovativa e progressista ma che havestito comportamenti imbarazzanti e offensivi nei riguardi di tutte le donne. È apparso tutto come un contentino da dare alle donne del paese e non come una vera politica attenta alle lotte di genere e a far progredire il paese su questo terreno. “Essere donna” è stato generalizzato e strumentalizzato per fini politici. Tutto questo è stato meschino.
Chi ne esce vinto e chi ne esce vincitore da queste elezioni? Di certo l’elezione di Mattarella ha decretato la fine della coalizione del centro destra tra Salvini-Meloni-Berlusconi. Il leader del Carroccio ha dimostrato tutti i suoi limiti nel gioco politico fallendo la missione che gli era stata affidata dagli alleati. Duro è stato il commento di Giorgia Meloni alla riconferma di Mattarella, sancendo l’allontanamento dal carroccio. Salvini ne esce sconfitto. Il movimento cinque stelle ha dimostrato di essere lacerato al proprio interno a causa della lotta al vertice tra Conte e Di Maio. I pentastellati dovranno ricucire i rapporti col Pd visti gli ultimi giorni di trattative. D’altro canto Di Maio si è mosso abilmente dietro le quinte orchestrando l’operato dei “Dimaniani”, favorevoli al Mattarella-bis. Letta è stato l’unico a gestire le trattative con razionalità e decenza. È anche vero però che il Pd non ha mai preso una pozione forte ma ha agito difendendosi nell’angolo e ha aspettato che la foga del centro destra andasse a sbattere contro il muro. In questo modo è riuscito a mantenere compatti i suoi nonostante le divisioni interne e a portare al colle un suo nome. La Meloni ha ottenuto il premio della coerenza eforse il ruolo da protagonista della destra italiana. Tralasciando l’operato dei vari capi di partito, il vero vincitore è stato il parlamento. Di fronte all’incapacità dei partiti di trovare l’accordo, il parlamento ha spinto, senza nessuna indicazione ufficiale e dopo giorni di schede bianche e astensioni, per la rielezione di Sergio Mattarella. Infatti il Presidente della Repubblica ha voluto incontrare i capigruppo parlamentari e non i capi dei partiti, a testimonianza del ruolo svolto dal parlamento per uscire dall’impasse.
Trarre conclusioni da questa vicenda sembrerebbe molto complicato ma in realtà la situazione politica è facilmente leggibile. Abbiamo già discusso di come l’arrivo di Draghi a Palazzo Chigi abbia rappresentato la morte della politica italiana. A distanza di un anno la nostra classe dirigente non poteva resuscitare, nemmeno con un intervento divino. Nel momento in cui la politica doveva dimostrare responsabilità e maturità nell’operato, ha invece dato vita ad uno spettacolo pietoso. È vero che la maggior parte delle elezioni del presidente della repubblica nel nostro paese si sono protratte anche oltre l’ottavo scrutinio ma quello che differenzia il nostro momento storico è la pandemia. Sono passati due anni dall’inizio della pandemia, due anni in cui la società civile è stata chiamata a compiere enormi sacrifici. Lockdown, telelavoro, mascherine, didattica a distanza, riduzione della socialità, prevenzione. Tutti elementi che hanno modificato radicalmente la vita dei cittadini, dal più anziano al piùpiccolo. Dopo tutto questo sacrificio sopportato e gestito dalla popolazione i politici dovevano mostrare rispetto verso i membri della società civile che hanno agito per tutelare la salute della collettività. Rispetto che dovevano mostrare innanzitutto verso le 146.000 vittime causate dal coronavirus in Italia. Avrebbero dimostrato di essere rispettosi se avessero gestito l’elezione del Presidente della Repubblica in maniera matura, seria e razionale. Hanno, invece, inscenato una pantomima indecorosa e frustrante che dimostra la crisi cupa in cui versa la nostra politica e la classe dirigente italiana. Nel suo breve discorso dopo l’avvenuta elezione, Sergio Mattarella ha richiamato il “senso di responsabilità” che la crisi pandemica deve causare e alla pronta risposta che si deve dare “ai doveri” a cui si è chiamati anche se contrari alle proprie “prospettive personali”. I partiti non hanno dimostrato né senso di responsabilità, né senso del dovere verso le istituzioni.
Tommaso Aiello