Puntaccapo incontra Francesco Costa

Il 27 agosto al Domino Festival, Puntaccapo ha incontrato Francesco Costa, vice-direttore de Il Post, esperto di “cose americane” e autore di due libri e di un podcast sugli Stati Uniti – uno dei primi podcast giornalistici prodotti in Italia.

Costa risponde alle domande del mediatore sul palco, poi risponde ad alcune domande del pubblico e infine si prende qualche minuto per conversare con Puntaccapo. I ritagli di due ore di interventi sono stati ricuciti in questo articolo.

Il giornalista si muove agilmente da un argomento all’altro, partendo, ovviamente, dall’America, continente immenso e variegato, del quale ha studiato, durante i suoi viaggi-reportage, politica, cultura e società.

Sulle due figure chiave delle ultime elezioni, Biden e Harris, preferisce partire dalla loro storia personale, poiché quando si parla di personalità politiche le storie personali sono particolarmente importanti. 

“Innanzitutto perché spesso anche il politico o la politica di cui meno condividiamo le idee ha alle spalle una storia interessante. Ma soprattutto perché la politica non la fanno i programmi elettorali, la fanno le persone: qualunque candidato promette un sacco di cose ed è solo la storia personale del candidato che può aiutarci a capire quanto egli creda in quelle cose e quanto sia capace di realizzarle”, afferma Costa.

Le storie di Biden e Harris sono agli antipodi ed entrambe esemplari della storia americana. Lui è un maschio bianco, cattolico, di estrazione medio-bassa della Pennsylvania. Un americano medio che però ha vissuto dolorosissime tragedie familiari (perdendo prima la moglie e la figlia neonata, e quarant’anni dopo un altro figlio) e che ha attraversato mezzo secolo di politica americana dentro al Congresso. “Riesce facilmente ad essere allo stesso tempo familiare e istituzionale, e guadagnare voti al centro: moltissimi americani si riconoscono in lui per la sua origine popolare e per la storia della sua famiglia, e al tempo stesso è un volto della classe dirigente, moderato ed esperto”.

Harris ha una storia diversa, è figlia di persone immigrate, non è bianca ma indo-giamaicana, e soprattutto è donna. La sua carriera non si è sviluppata a Washington e non si è mai basata sull’equilibrio fra democratici e repubblicani moderati, ma è cresciuta politicamente nella procura, prima come vice-procuratrice della Contea di Alameda, poi come procuratrice distrettuale di San Francisco e infine procuratrice generale della California. È stata eletta al Senato solo nel 2016. 

“Se da un lato ha sempre affrontato sfide elettorali complesse e dalla difficoltà crescente, in cui partiva da sfavorita, anche solo perché donna e nera, dall’altro non ha mai dovuto realmente confrontarsi con il Partito Repubblicano e con l’elettorato di destra, avendo sempre gareggiato in California. La sua posizione adesso è molto delicata perché lei ha manifestato fin da subito l’intenzione di candidarsi alla Casa Bianca a fine mandato, e quando un giorno l’elettorato, l’intero l’elettorato statunitense dovrà decidere, si baserà principalmente sul suo operato in questi quattro anni,” continua il giornalista del Post.

Si allarga poi lo sguardo e si passa ad analizzare la storia recente degli Stati Uniti e le trasformazioni che negli ultimi trent’anni hanno cambiato il volto del paese. Secondo Costa le principali trasformazioni sono di tre tipi.

“Un primo mutamento è dovuto alla massiccia urbanizzazione in atto da decenni, che vede il popolo americano riversarsi nelle città e abbandonare gli altri spazi. Le città sono per tanti motivi luoghi fisiologicamente più progressisti, dove le battaglie dei conservatori hanno scarsa presa. I grandi stati conservatori del Sud vedono da tempo, da prima delle ultime elezioni, l’avvento dei Democratici anche grazie all’urbanizzazione: Arizona e Georgia, roccaforti del Partito Repubblicano, sono state vinte da Biden con i voti di Phoenix, Tucson ed Atlanta. 

Il risultato è che la cartina elettorale non è più divisa fra aree costiere e “pancia” dell’America, secondo uno schema caro ai media nostrani, ma fra aree urbane altamente popolose e aree rurali estese e scarsamente popolate.”

Un secondo tipo di trasformazione è geo-economico e consiste nello spostamento da nord a sud dell’epicentro produttivo del paese. Il Mid-West, cuore dell’America e del potere manufatturiero è fermo dagli anni ’90: le persone, gli investimenti e l’industria si sono spostati a Sud, un tempo rurale e oggi economicamente in crescita. 

“Per noi italiani immaginare che genere di tensioni sociali possa produrre un simile rovesciamento di fronti è piuttosto semplice, basta immaginare cosa succederebbe se nell’arco di un ventennio chiudesse l’industria del Nord ed esplodesse il Sud, coi milanesi costretti a migrare in Meridione in cerca di lavoro. Tutto ciò non sarebbe negativo in senso assoluto, ma non ci sono dubbi che porterebbe ad insofferenza ed attriti difficili da governare. La politica americana non ha saputo governare questo genere di problemi.”

Infine Costa fa il punto sul terzo grande fenomeno, l’immigrazione, a cui si interseca l’evoluzione demografica del Paese. In base agli ultimi dati disponibili (fonte YouTrend) “solo” il 60% della popolazione statunitense è bianco, il 19% ispanico, il 12% afro-americano e il 6% asiatico  (con un restante 3% che si dichiara appartenente ad altre etnie).

“Oggi i minorenni bianchi negli Usa sono la minoranza se confrontati con la somma degli appartenenti alle altre etnie. Questo vuol dire che un paese che ha ereditato quattro secoli di schiavitù e in cui la segregazione razziale è finita ufficialmente cinquant’anni fa (ufficiosamente forse non è mai davvero finita – e si parla non a sproposito di razzismo sistemico) è destinato ad essere un paese in cui gli appartenenti ad etnie discriminate sono complessivamente la maggioranza. Cinquant’anni non sono molti, tantissimi attuali elettori erano presenti quando le persone nere erano “legalmente” segregate e dopo qualche decennio hanno visto un presidente nero – e una vice-presidente nera.

Quando Trump dice ‘make America great again’ si riferisce a tante cose, ma per sintetizzare si può dire che lui si riferisca a quando non era tutto così, prima delle trasformazioni, quando ancora era “legittimo” essere razzisti”.

Mentre dal campo arrivano gli echi del soundcheck prima del concerto, dall’America si passa a parlare di media e disinformazione.

“Non esistono ricette miracolose” dice Costa quando gli si chiede come evitare le fake news, “l’unica soluzione è provare a costruirsi una dieta mediatica equilibrata”.

Innanzitutto nessun giornalista è infallibile e qualunque lettore prima o poi è cascato in una fake news – “se non vi è ancora successo è solo perché non ve ne siete accorti”.

Ovviamente valgono delle regole di massima, una di queste è quella per cui “se sembra troppo bello per essere vero, probabilmente non è vero. Vi ricordate la foto dell’adesivo contro Greta Thunberg attaccato sul retro di un’auto travolta dalle inondazioni in Germania? Era una foto perfetta, la nemesi dei negazionisti del cambiamento climatico, e infatti era falsa”. Secondo il giornalista italiano, il problema della disinformazione si ripercuote sia fra i conservatori che fra i progressisti, esiste sia a destra che a sinistra.

“La verità tuttavia è che verificare le notizie non è compito del lettore o della lettrice, ma di chi fa il mio mestiere. Chi legge non ha i mezzi tecnici e professionali per compiere questi controlli, e chi scrive dovrebbe invece trovare l’onestà intellettuale per farlo”.

Quindi come se ne esce? Costa torna sul tema della dieta mediatica: il principio alla base di una dieta non è solo quello di variare i cibi, e variare è fondamentale, ma soprattutto quello di non farsi nutrire a caso. “Lo stesso ragionamento va fatto con i media. Scorrere col dito sui social network è divertente e non è detto che vi si trovino cose di qualità inferiore alla carta stampata, ma è una forma di assunzione delle notizie casuale e passiva, affidata agli algoritmi delle app, equivale a farsi imboccare di cibo senza criterio da qualcun altro. Organizzate voi la vostra dieta mediatica, più o meno salutista, non perché dovete per forza sapere tutto, ma perché è giusto scegliere di quali notizie nutrirsi: può essere un quotidiano a settimana, l’ascolto di un podcast mentre andate a lavoro, un documentario la domenica. Col tempo vi costruirete una cerchia di fonti che considerate affidabili, e magari dopo un po’ inizierete a cambiarne qualcuna”.

Purtroppo però non è sufficiente essere attenti nell’informarsi, perché una democrazia funzioni l’informazione deve mantenere alti standard. I problemi degli organi di informazione e in particolare della stampa in Italia sono molti, avverte Costa.

Uno di questi è legato ad alcune tecniche giornalistiche, quasi inesistenti all’estero, che nel nostro Paese sono usate quotidianamente per deresponsabilizzare l’autore del testo e il giornale. È un tema che l’intervistato affronta spesso nella sua rassegna stampa quotidiana, Morning. 

“Le interviste decontestualizzate (costruite solo come domande e risposte, senza l’intervento critico del redattore) o la pubblicazione di lettere aperte scritte da esponenti politici sono strumenti pericolosi, perché trasformano le pagine in questione in zone franche in cui le normali regole professionali sono sospese. Sono casi in cui il giornale, che normalmente si sforza di garantire che quanto scritto sulle proprie pagine sia vero o almeno verificato, sospende ogni forma di verifica e pubblica sulle proprie pagine informazioni, contenute in una risposta del politico X o in una lettera aperta della politica Y, che possono essere, e capita spesso che lo siano, sbagliate o incomplete.”

Non sono gli unici casi di deresponsabilizzazione della stampa nostrana, esistono poi tutta una serie di trucchi per pubblicare notizie non verificate o non verificabili, che però il giornale vuole pubblicare a tutti i costi. “Quando vedete un virgolettato nel titolo di un articolo, ad esempio “Sparano sull’aereo italiano a Kabul”, tenete a mente una cosa: nessuno ha detto quella frase, semplicemente il giornalista vuole pubblicarla e non può o non vuole prendersi la responsabilità di scriverla a proprio nome, magari perché assolutamente non verificata, quindi fa finta di riportare quanto detto da qualcun altro”, spiega Costa.

Secondo lui la crisi professionale del giornalismo italiano ha più concause. Innanzitutto è intrinsecamente legata alla crisi industriale del settore, che vede da anni ridursi il proprio bacino d’utenza.

“Va poi accettato un fatto semplice: la stampa non è un mondo a sé rispetto al sistema-paese, non è una camera stagna dentro una nave che fa acqua da tutte le parti. Così come, nonostante ci siano eccellenti professionisti nel mondo della sanità, il sistema sanitario ha lacune spaventose e capita che funzioni male, altrettanto avviene nel giornalismo. Se in Italia non funzionano in modo eccellente le amministrazioni locali, la sanità, la scuola, il lavoro in genere, perché dovrebbe funzionare in modo eccellente la stampa? Questo non vuol dire che sia sempre un disastro, d’altronde neanche la politica in Italia è sempre un disastro, però non ci si può aspettare l’eccellenza se non ce la si aspetta in nessun altro ambito” afferma il giornalista. 

Per il vice-direttore del Post ci sono anche problemi “genetici”, afferenti alla storia della stampa nostrana. In Europa e in Nordamerica il giornalismo si divide in due grandi settori, quello della stampa ufficiale e quello che gli anglosassoni chiamano tabloid, come il Daily Mirror o il New York Daily News. Questi quotidiani, che non sono assimilabili alle nostre riviste da spiaggia (quelle ci sono anche all’estero, ma sono un terzo livello ancora), fanno gossip, titoli scandalistici, cronaca politica ad un livello qualitativo più basso, rilanciano notizie scarsamente verificate. 

“Questo però fa sì che la stampa istituzionale sia separata e pertanto più impermeabile a quel genere editoriale. Al contrario in Italia, dove non esistono i tabloid, le maggiori testate fanno entrambe le cose: scrivono articoli di cronaca con taglio professionale e pubblicano articoletti sensazionalistici, magari nella stessa pagina. Inevitabilmente i due generi editoriali finiscono col contaminarsi, spesso dal basso verso l’alto e non viceversa”.

Il Post negli ultimi dieci anni ha proposto un modello di giornalismo differente, scommettendo in tempi non sospetti sull’utilizzo di internet e di media alternativi, come il podcast. Le ultime domande, vis à vis, vertono soprattutto sul lavoro quotidiano di Costa all’interno del Post, partendo da uno dei manifesti del giornale, lo “spiegato bene”.

“Negli articoli giornalistici molti passaggi, molti riferimenti, a volte il significato stesso dei termini non vengono spiegati, un po’ per esigenze di sintesi, un po’ perché si è sempre fatto così. Il problema è che spesso, per una persona che non legge i quotidiani tutti i giorni, ossia la stragrande maggioranza delle persone, il quotidiano sia incomprensibile. A volte manca un certo tipo di attenzione nei confronti di chi legge. Negli articoli del Post, non solo in quelli col titolo “spiegato bene”, cerchiamo di curare questo aspetto, di raccontare la singola vicenda aiutando però chi legge a capire gli “episodi precedenti”. 

Ovviamente ha anche un secondo significato, di politica editoriale. Anche a costo di risultare arroganti, ci teniamo a pubblicare solo articoli di cui possiamo assumerci interamente la responsabilità, perché raggiungono quello che per noi è un accettabile livello di accuratezza e di verificabilità. Se non possiamo spiegarle bene le cose, allora preferiamo non pubblicare proprio la notizia e aspettare magari un giorno.”

Mantenere alto lo standard di un giornale non è facile secondo Costa, richiede tanta formazione interna e la condivisione delle scelte editoriali, ma si riduce fondamentalmente ad un’unica decisione.

“In tutti i giornali italiani lavorano persone con grande talento e professionalità, ma l’unico modo per fare bene le cose è decidere un bel giorno di farlo: quando le cose sono fatte male non succede di nascosto o per sbaglio, i giornali sanno perfettamente se pubblicano una notizia falsa o se con un titolo cambiano completamente il senso di un fatto. È una questione di cultura del lavoro e di cultura editoriale interne alla redazione, più facili da risolvere e da trasmettere in un giornale piccolo nato 10 anni fa come il Post, più difficili in una testata che conta 400 giornalisti e 150 anni di storia”.

L’altro tema che tocchiamo è quello dei media alternativi, che Il Post ha saputo sfruttare fin dalle sue origini nel 2010, quando ha iniziato a pubblicare i propri contenuti interamente su Internet.

Oggi spopola il podcast, che Francesco Costa conosce bene. Il suo “Da Costa a Costa”, viaggio-reportage attraverso l’America, è stato uno dei primi podcast giornalistici editi in Italia; al momento invece è impegnato a produrre “Morning”, rassegna stampa quotidiana dedicata ai principali cartacei italiani, alle notizie riportate e ai meccanismi con cui la stampa seleziona e confeziona tali notizie.

“Quando ho cominciato, fra i primi in Italia, non mi sono inventato niente, in America succedeva già da tempo, perché il podcast è un sistema che funziona, sotto tanti aspetti. Sicuramente la narrazione orale è il primo metodo di trasmissione dell’informazione dell’uomo, vi siamo ancestralmente legati. Ma non è solo quello: il podcast oggi è l’unico strumento di trasmissione dei contenuti che non richiede la tua attenzione assoluta, perché ti permette di fare altro. Questo va in controtendenza in un mondo in cui i media si basano sul controllo dell’attenzione: i social network, i videogiochi, le piattaforme di streaming, i giornali (come il nostro) hanno bisogno che l’utente sospenda qualunque altra attività per dedicarsi ai loro contenuti. Il podcast lo ascolti mentre guidi, mentre cucini, mentre fai sport.

L’altro grande vantaggio è che ti permette di approfondire molto i temi, perché sei puntate di un podcast sul G8 di Genova o sulle invasioni barbariche le ascolti molto volentieri, mentre è più difficile che molte persone leggano decine di pagine sugli stessi argomenti”.

Inoltre, aggiunge il giornalista, è istruttivo per chi lo produce: costringe il podcaster ad essere chiaro e limpido nell’esposizione, perché chi ascolta non è un lettore o una lettrice e non può tornare sulla frase per capirla meglio. Questo sforzo ulteriore alza la qualità della comunicazione.

Un ultima domanda, anzi un consiglio per dei giovani studenti che vorrebbero fare giornalismo?

“Non mandate solo curriculum in giro, non perché i vostri non siano all’altezza, ma perché in realtà non li legge quasi nessuno. Fate quello che state facendo adesso, costruite qualcosa voi, che sia un blog sulle criptovalute, sulla pallavolo o sulla situazione geo-politica dell’Egitto. Continuate a fare progetti, mano a mano che si scrive si migliora, e così dimostrate che sapete fare qualcosa. Ma soprattutto prendete esempio, ci sono tantissime persone talentuose in Italia”.

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