Moussa Balde e l’identikit dell’istituzione razzista

C’è chi alla domanda “Dov’è il razzismo in tutto questo, chi è stato razzista?” senza neanche bisogno di un minuto per pensarci risponderebbe ” Il razzismo è ovunque, tutti lo siamo stati”.


Era diventato virale il video dell’aggressione di tre ragazzi bianchi ai danni di Moussa Balde, quasi ventitreenne di origini Guineane, suicidatosi nel Cpr di Torino lo scorso 22 maggio.

Il pestaggio era avvenuto il 9 del mese, ma in molti ne sono venuti a conoscenza solo nelle giornate immediatamente successive al suicidio: la notizia della sua morte ha suscitato l’indignazione e il disprezzo per una violenza razzista perpetrata settimane prima, ma fino ad allora rimasta ignorata.

A questo punto viene quasi spontaneo porsi alcuni ordini di domande. Anzitutto, perché l’aggressione da sola ha avuto un’eco tanto scarso? Tre ragazzi bianchi che prendono a calci e a sprangate un ragazzo nero non è abbastanza a risvegliare tutto quell’antirazzismo e quella mestizia esternati solo in seguito al suicidio? Davvero occorreva anche la morte? A queste prime domande si potrebbero dare tante risposte, alcune molto critiche sulle scelte comunicative, per cui certe notizie non meritano chissà quale seguito; altre marcatamente connesse alla reazione del lettore medio: “sono cose che capitano”.

Ma c’è un altro aspetto su cui davvero vale la pena essere critici: dov’è il razzismo in quanto è successo? Cioè dove, di preciso, si riscontrano dinamiche razziste nell’intera vicenda, ed in particolare di che tipo di razzismo si tratta.

Innanzitutto una prima risposta, banale ma pur sempre necessaria, ce la suggerisce Tom Hanks: “razzista è chi il razzista fa” (scusa Tom). Quindi i tre ragazzi bianchi che aggrediscono un ragazzo nero sono razzisti, e si tratta di un grave episodio di razzismo individuale.

Risulterebbe invece efferato e radicale chi alla domanda “dov’è il razzismo in tutto questo, chi è stato razzista?”, senza neanche il bisogno di un minuto per pensare, rispondesse: “è ovunque, tutti lo siamo stati”. Ed in effetti, nessuno oltre a quei tre ha commesso atti di violenza verso Moussa, nessuno è entrato nel Cpr di via Brunelleschi e l’ha impiccato col lenzuolo.

Forse manca un pezzo del puzzle, allora facciamo un passo indietro di circa 28 anni.

La sera del 22 aprile 1993, a Londra, fu assassinato da una banda di cinque giovani bianchi, Stephen Lawrence, ragazzo, allora poco più giovane di Moussa, figlio di immigrati giamaicani. La negligenza di chi condusse le indagini portò inizialmente ad un proscioglimento, nonostante il fatto fosse avvenuto alla presenza di testimoni. I genitori, tuttavia, dopo anni di battaglie, riuscirono ad ottenere che il ministero dell’Interno conducesse un’inchiesta su quello che allora era considerato poco più di una chimera: il “razzismo istituzionale”. Il lavoro svolto dalla commissione d’inchiesta, concluso solo nel ’99, viene ancora oggi menzionato come modello di meticolosità e profondità d’analisi. Esso denunciò i vizi delle indagini e del processo preliminare a causa del razzismo istituzionale, non solo diffuso tra le forze di polizia, ma “trasversale all’intera cultura e alle istituzioni britanniche”. Il report, inizialmente respinto da più parti, fu preso molto sul serio nel lungo termine (naturalmente portando alla riapertura del fascicolo Lawrence, ed in seguito alla condanna dei suoi carnefici), soprattutto per il significato sotteso alla durezza di certe considerazioni ivi contenute: tutt’altro che un insulto alla nazione, ma all’opposto, una grandissima espressione di amor patrio, consistente nel riconoscere i difetti di quell’entità imperfetta, ma perfettibile che è lo Stato. Il grande sforzo che in Italia non è ancora mai stato fatto, o meglio, non a livello istituzionale. La definizione che il report dava di “razzismo istituzionale”, non si fondava tanto sulle intenzioni razziste dell’istituzione di riferimento, ma sugli effetti che le sue azioni produce. “Ogni pratica processuale, politica, legiferativa o d’altra natura, purché abbia ascendenza statuale, che pur senza intenzione o consapevolezza, ha come conseguenza un trattamento ingiusto e diseguale nei confronti di una minoranza è, per definizione, sempre e comunque razzista.” Ma non è tutto.

Per comprendere ancora meglio la profondità del concetto di razzismo istituzionale, occorre spostarsi oltre oceano, ed ancora più indietro nel tempo. Sul finire degli anni ’60, nel manifesto del movimento americano per i diritti civili delle persone di colore Black Power, tale espressionefu coniata e diffusa per la prima volta. Posto il concetto di razzismo individuale come atto o fatto palese, riconoscibile e per lo più deplorato dall’opinione pubblica, il manifesto in parola affermò l’esistenza di una seconda forma di razzismo: molto più sottile, difficile da riconoscere e quindi più pericolosa, il razzismo istituzionale deriva da un meccanismo di forze costituite, che prescindono dal carattere formalmente istituzionale, che producono gli stessi effetti, ma attraverso dinamiche più omissive che commissive e quindi difficilmente smascherabili, ma al tempo stesso ben più sistemiche. Cinque suprematisti bianchi che lanciano una bomba dentro una chiesa frequentata da persone nere facendo cinque vittime, commettono un atto di razzismo individuale. Esso verrà condannato tanto dalla società quanto dai giudici. Ma se nello stesso anno in cui avviene tale fatto, non cinque, ma cinquecento o cinquemila persone di colore muoiono per la mancanza di politiche abitative, assistenziali e sanitarie adeguate, oppure altrettante persone nere vengono maltrattate e distrutte sul piano psichico, emotivo e intellettuale a causa delle condizioni di miseria in cui la comunità nera è costretta a vivere, allora si parlerà di razzismo istituzionalizzato. Se è ovvio quanto la prima forma di razzismo non sia affatto più distruttiva della seconda, molto meno ovvio sarà il riconoscimento e la ricerca della responsabilità della seconda rispetto alla prima.

Un importante approfondimento di questo tema, lo condusse Barack Obama, in occasione del suo celebre discorso Sulla razza, pronunciato durante la campagna per le primarie presidenziali. Il suo discorso verteva sulla gravosità degli effetti delle cd. Jim Crow Laws, una serie di atti normativi, di ispirazione suprematista (uno di questi conteneva la norma per cui Rosa Parks avrebbe dovuto cedere il posto in autobus) rimasti efficaci per più di ottant’anni, fino a quando durante la presidenza Kennedy, la Corte Suprema ne decretò l’incostituzionalità. Obama racconta quanto gli effetti di queste leggi perdurino anche a mezzo secolo di distanza dalla loro decadenza. In alcuni casi si tratta di effetti pratici, così le limitazioni di allora all’accesso a mutui e finanziamenti per le persone nere, hanno comportato l’impossibilità per esse di produrre e conservare ricchezza, e oggi la differenza media tra un bianco e un nero in termini di reddito è cosa nota. Allo stesso modo ai neri era preclusa la partecipazione ad organizzazioni sindacali, e dalla scarsa esperienza sindacale del passato deriva, oggi, una quasi totale assenza di predisposizione a condurre battaglie di contrasto allo sfruttamento nei luoghi di lavoro. Ancora: le scuole differenziate allora, significavano livelli di istruzione diversa, oggi questo si traduce in minori possibilità di accesso a posizioni privilegiate nel mercato del lavoro ed in società, anche per “quei pochi che sono riusciti a conquistare, con le unghie e con i denti, un pezzetto di sogno americano”.

Posto tutto questo, nulla fa deporre che l’amministrazione americana, in tutti questi decenni, abbia fatto granché per rimuovere gli effetti di quelle antiche, ma non per questo superate, leggi.

Quale che sia la configurazione che assume il concetto di razzismo istituzionale, sono chiari alcuni suoi aspetti. Esso è immateriale, privo di forma e di connotati: si può esprimere in ogni modo, dalla legge al costume, dalle pratiche del singolo a quelle diffuse, dal pensiero alla parola alle azioni.

È durevole oltremodo, ne è prova quanto accade oggi in America così come in Italia e in tanti altri paesi sedicenti egualitari. È privo di autori diretti, e questo comporta l’impossibilità di imputarne a taluno la responsabilità giuridica e morale. Ma sopratutto, è un circolo vizioso: è destinato a rimanere uno status quo, fin quando esisterà, non venendo però riconosciuto, ne saranno considerati normali gli effetti che produrrà, e quindi continuerà ad esistere, e a non essere riconosciuto, e ad esserne considerati sempre più normali gli effetti e cosi via. E non vi sarà legge, provvedimento o singolo politico, né gruppo, capaci da soli di inibirlo.

Questo è il razzismo istituzionale, e quanto emerge dalla vicenda di Moussa ne ricalca alla perfezione i tratti peculiari.

Moussa dopo essere stato picchiato non è stato curato in modo adeguato prima di essere rinchiuso nel Centro di permanenza e rimpatrio, dove non gli era permesso avere visite. Non gli è stata offerta la stessa assistenza psicologica che un normale cittadino bianco italiano ha la possibilità di ricevere dopo una violenza, per scongiurare la deriva a cui tutti abbiamo assistito. È stata esclusa la matrice razziale dell’aggressione, derubricata a “giustificata reazione a tentativo di furto”, così la sua gravità non ha avuto inizialmente il seguito che meritava, e l’inerzia della procura e il disinteresse mediatico, hanno fatto si che Moussa perdesse anche la speranza di vedere rivendicati i suoi diritti in sede processuale. Quasi inesistenti, infine, sono state le parole di solidarietà e conforto spese per lui al di fuori del Centro.

Avevano ragione Carmichael e Hamilton, militanti di Black Power, quando sostenevano che la società è bianca, perché è fatta a misura di uomo bianco ed è nelle mani dell’uomo bianco. Loro parlavano tanto tempo fa, ma un caso come quello di Moussa Balde facilmente riporta all’apogeo del movimento a fine anni sessanta.

di Giovanni Chemello

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