
“Nunc et in hora nostris mortae. Amen”.
Il capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”, esordisce così, semplicemente con il verso di chiusura dell’Ave Maria. Al suo interno, però, c’è la parola fulcro dell’intero romanzo: morte.
La vicenda si svolge in Sicilia, nel palermitano. Siamo nell’800, alle porte dell’Unità d’Italia, ma questa storia è perfettamente in grado di parlare al presente – ed anche al futuro, come il migliore dei romanzi distopici. Personaggi chiave, Don Fabrizio Salina e suo nipote Tancredi: emblema della vecchia nobiltà feudale il primo, giovane unionista che sposa la causa delle camicie rosse l’altro. È curioso il rapporto che lega zio e nipote, cioè il vecchio e il nuovo, la tradizione e il progresso… o forse, dovremmo dire, un falso progresso?
“Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Don Fabrizio, un uomo intelligente e di grande cultura, comprende la genialità di queste parole così oscure nel significato, specie perché pronunciate da un giovane come Tancredi, in procinto di partire con Garibaldi per la spedizione che avrebbe determinato un cambiamento radicale nella penisola italiana. In sostanza, è il nuovo che parla al vecchio e che sposa la novità ma solo per mantenere ciò che già è in essere. Cosa si cela dietro questa grande contraddizione?
Da questa conversazione in poi, si susseguono una serie di eventi: l’unità d’Italia è completa, i Salina si trasferiscono nella residenza di Donnafugata per trascorrere i mesi estivi, Tancredi torna a casa e si innamora di Angelica. In tutto questo, il paesaggio siciliano è tutt’altro che un mero sfondo. Ed è così anche nella realtà: il paesaggio e il clima, in Sicilia, sono la chiave interpretativa di ogni cosa.
Aprì una delle finestre della torretta. Il paesaggio ostentava tutte le proprie bellezze. Sotto il lievito del forte sole ogni cosa sembrava priva di peso: il mare, in fondo, era una macchia di puro colore, le montagne che la notte erano apparse temibilmente piene di agguati, sembravano ammassi di vapori sul punto di dissolversi, e la torva Palermo stessa si stendeva acquetata attorno ai conventi come un gregge al piede dei pastori. Nella rada le navi straniere all’ancora, inviate in previsione di torbidi, non riuscivano ad immettere un senso di timore nella calma maestosa. Il sole, che tuttavia era ben lontano dalla massima sua foga in quella mattina del 13 maggio, si rivelava come l’autentico sovrano della Sicilia: il sole violento e sfacciato, il sole narcotizzante anche, che annullava le volontà singole e manteneva ogni cosa in una immobilità servile, cullata in sogni violenti, in violenze che partecipavano all’arbitrarietà dei sogni.
Il sole narcotizzante. Il panorama che viene prospettato nel romanzo è permeato di morte, quella morte con cui esordisce il romanzo, una morte che più che essere la fine di qualcosa, è piuttosto una prosecuzione dell’esistenza in un’eterna lentezza, come quella provocata da un sonno prolungato. Un sonno che Don Fabrizio, quando riceve la visita del cavaliere del Regno Chevalley, che gli propone di entrare in Senato, descrive così:
“Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali […]. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente, la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto.”
Quando si volta l’ultima pagina del romanzo, ciò che rimane è un senso di angoscia, ma anche la consapevolezza che quella frase così sibillina pronunciata da Tancredi, in realtà, è profondamente vera: per quanto il tempo possa passare e per quanto il progresso possa portare i suoi frutti, in realtà tutto è destinato, nella sua essenza, a rimanere tale e quale. Poco garbato, forse, Tomasi di Lampedusa, nell’avvalersi di queste parole. Ma un siciliano, nel profondo, sa che sono vere; e non solo un siciliano.
Non è facile comprendere la contraddizione che lega un paesaggio così descritto e l’opera di una moltitudine di artisti nati sull’isola che ad esso si sono ispirati. Così come non è semplice spiegare la coesistenza dello spirito forte di chi abita questi luoghi con quello stato dormiente di cui Don Fabrizio parla in maniera così disillusa e drastica.
Giuseppe Tornatore, regista di Baarìa, in un’intervista ha detto: “Io amo pensare alla Sicilia come un luogo dove puoi trovare qualunque tipo di contraddizioni. […] Quello che a me sempre ha colpito è che, secondo me, l’isola, l’essere nati in un’isola ha accentuato la vena sognatrice dei siciliani. L’essere costretti ad immaginarsi che cosa ci sia dall’altra parte dell’orizzonte ha accentuato molto questa vena visionaria.”
Cosa c’è dall’altra parte dell’orizzonte? C’è un mondo di cui la Sicilia fa parte, pur non mostrando sempre di esserne consapevole; un mondo che inizia dall’altra sponda dello Stretto, oltre una distanza di poco più di un paio di chilometri. Cosa può dare questo mondo? Qualcosa in più? Qualcosa in meno? È davvero migliore? Anzi, c’è bisogno di avvalersi delle categorie del meglio e peggio? Difficile rispondere a queste domande, sebbene, in un certo senso, chi nasce sull’isola sia costretto a porsele e a cercare di darvi una risposta, in questa costante lotta tra un sonno che rischia di avvincere la linfa vitale e l’attaccamento quasi ancestrale che lega un siciliano a queste terre e a questa gente, che non è facile da spiegare, ma c’è, esiste.
Questo incessante dibattito, che anima le conversazioni di ogni sera d’estate tra amici che tornano a casa per le vacanze, si produce però a un solo livello: il pensiero, la riflessione. Qualsiasi proposito di fare viene inibito, vuoi dal caldo, vuoi da un costante presagio che qualsiasi azione, prima o poi, possa subire una battuta d’arresto.
La Sicilia del Gattopardo non è romanzata, è reale. È un’istantanea cruda. Ma è una lettura obbligata, specie perché fa pensare e riflettere e, talvolta, proprio pensare e riflettere sono un qualcosa capace di tenerci vivi persino quando tutto, fuori, è immobile. Il caldo, la luce solare che si abbatte violenta sul tufo, un’intrinseca inclinazione al fatalismo (al “Come vuole Dio!”) – che forse, in un certo senso, rende più disillusi e quindi più pronti di fronte alla difficoltà o a qualunque cosa che di storto possa andare (quasi ci fosse un’abitudine che smorzi ogni calo di morale) – hanno origine nella lunga dominazione araba che rende questa popolazione più simile ad una nordafricana piuttosto che una del nord-Italia. E in linea con queste origini, in questi luoghi bellissimi, tra queste architetture antiche e maestose, ci sono un grande ingegno e una grande intelligenza, per quanto sembra che non ci sia alcuna fretta di metterle in atto.
“In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi.”
Di Federica Gitto