
Il padrone, Dominique sapeva, non era abituato a tutta quella esposizione al mondo esterno, al mondo reale. Di solito era Elizabeth che si occupava di faccende come il rifornimento del frigo, il giardinaggio nel cortile sul retro, il compito di allontanare i testimoni di Geova, agenti immobiliari e scocciatori vari, talvolta non senza qualche punta di piacere dal momento che li usava come suoi fluffer emotivi. Era una vera rarità sorprendere il padrone a mettere il naso fuori di casa, sia per una passeggiata rilassante, sia per vedere i suoi parenti con cui aveva bruciato i ponti ormai da anni. Non avevano mai completamente accettato la sua passione, quasi maniacale, per la scrittura, dicevano che lo avrebbe portato alla pazzia, all’isolamento, alla morte, non era decoroso per un uomo vivere soltanto di quello che picchiettava con il suo pennino su un foglio di carta straccia, non era mascolino leggere né scrivere, non dava certezze per il futuro, cosa ne avrebbero pensato i nipoti, i pronipoti, il parentado tutto, i nonni e gli zii defunti, paonazzi dalla vergogna nell’aldilà? Scrivere voleva dire suicidarsi, per loro. Allora, tanto vale che mi consideriate come morto, queste le sue ultime parole mentre sbatteva furioso, in tempesta, la porta sul naso della sorella. Quanto vorrei che mi potessero vedere adesso, disse mentre Dominique prese la terza svolta sulla sinistra, all’apice del mio successo. Viveva tra i muri di carta della sua stanza, trattando spesso Dominique ed Elizabeth come creature frutto del suo genio creativo. Saltate! esclamava e si aspettava, genuinamente, che saltassero. Dominique era preoccupato per la sua reazione: non si poteva travasare un pesciolino rosso dall’acqua dolce all’acqua salata senza aspettarsi delle conseguenze. Lanciava dardate con gli occhi preoccupati verso lo specchietto retrovisore per assicurarsi che tutto andasse secondo i piani, che lui rimanesse nel suo acquario. Ma nulla sembrava essere cambiato nei modi del sig. autore Milo Penna. Guardava, lui, distratto fuori dal finestrino brillante, fatto lucidare a posta per la gran parata, ma solo per brevissimi lampi di fuga, poi tornava, monomaniaco, a scarabocchiare cose sul suo taccuino, finché non perdeva il filo, finché non era insoddisfatto di qualche clausula o di qualche scelta lessicale e allora, in quel momento, tornava a cercare qualcosa fuori dalla macchina, qualcosa di inafferrabile: il suo riflesso lo ispezionava con la stessa aria interrogativa. Dove stai andando a parare con quell’ultima frase? Perché la lasci incompleta? Lo sai che se ti distrai adesso perderai l’Ispirazione e avrai gettato tutto all’aria? Di cosa hai paura? Di cosa?… Lasciava la penna, come i suoi pensieri, fluttuare, sballottati dalle fosse impreviste e dalle curve strette che Dominique incontrava. Attraversava la città come in un tunnel, diretto a Ferrara: le betulle avvolgenti di via della Ginestra come tetti sul viale, le campagne solitarie a fare da compagnia a un Po particolarmente borbottante quel giorno, qualche mamma davanti al negozio di alimentari a far provviste, gruppetti di giovanotti e signorine con sguardi complici e infiniti di chi tiene rinchiuso in un angolino della memoria tutti i gravosi ricordi di scuola e sa che niente al mondo gli darà gioia più grande del rompere la monotonia del tic tac tic tac driiiiiiiin fino a mezzanotte per poi ricominciare di nuovo per due mesi filati che sembravano un’eternità tutta da consumare e poi due ragazzotti che si baciavano silenziosi dietro una betulla le mani ad accarezzarsi gli angoli degli occhi angeli e peccatori insieme e ancora una donna anziana avvolta in un turpe scialle che chiedeva l’elemosina ai passanti con la schiena dritta e inflessibile forse memore di altri tempi e tanta tanta altra vita e allora lui continuava ad affacciarsi perché qualcosa gli soffiasse vita nei polmoni fino ai polpastrelli sperava che una di quelle esistenze gli saltasse in grembo sul taccuino e il loro tempo di birbonate e baci della buona notte e bugie e segreti e infinito dolore e sincerità si componesse in inchiostro parlante sulle sue pagine: le carte come copia carbone della loro vita e della sua mente ma è troppo tardi gli sfuggono ed ecco che svoltano l’angolo a destra magari tornano a casa per non destare sospetti mentre lui voltava a sinistra per la quarta volta ed era in ritardo per la mezzanotte, tic tac tic tac tic driiiiiiin era in ritardo per la mezzamorte driiiiiiiiin tic tac tic tac e… Dominique! si rialzò a fatica dai suoi pensieri con un tono di voce eccessivamente brusco, Non mi starai mica sabotando? Sai che ore sono? Dominique ne era ben al corrente. Sissignore, mi ero smarrito per un attimo ma ormai ci siamo. Eccoci arrivati. Il sig. autore illustrissimo Milo Penna per poco non mise piede fuori dalla macchina mentre era ancora in movimento. Era decisamente smanioso di raccontare a tutti come gli era venuta la brillante idea del suo romanzo. Con quale dolore, con quali tribolazioni lo aveva partorito, quali Muse aveva dovuto scomodare. Si diresse verso una casetta a due piani, non molto dissimile dalla sua dall’altro capo della città, stando a quanta strada avevano percorso. Una porta laccata di bianco spiaccicata su una facciata verde acqua. Quasi identica alla sua se non fosse stato per una casetta degli uccelli, molto graziosa, in legno d’acero, a pochi metri dall’ingresso, che si rovesciò al suolo nel secondo in cui il neo-romanziere gli passò di fianco. Sembra che l’abbiano piantato da poco, pensò. Con Dominique che ancora liberava il carico dal retro della Panda, il sig. autore illustrissimo Milo Penna si avviò in testa, senza far cenno di aspettarlo, raggiante, come se fosse arrivato lì da solo, trasportato dal vento e dalla sua stessa emozione. Nell’istante stesso in cui si piegò leggermente a pigiare sul campanello, la porta si aprì lentamente, tirata da una mano invisibile. Mise piede sul tappeto scarlatto che correva lungo tutto il corridoio senza neanche salutare i camerieri del catering, tra cui il ragazzo smilzo e pallidissimo che gli aveva gentilmente aperto la porta, ma erano pochi a dir la verità, sparpagliati agli angoli, per fare scena, del modesto salotto che lo avrebbe accolto in conferenza stampa quel pomeriggio. Un ambiente ben spazioso e illuminato, simile al suo di salotto, una enorme vetrata gli permetteva di vedere Dominique, ancora impacciato, tentare a fatica di correre verso la porta e raggiungerlo prima che prendesse la parola ma non c’era fretta, lui pensava. Voleva goderseli, quei secondi. Voleva essere investito, sguazzare in quel riverbero di prostrazione e adulazione di una manciata di appassionati e giornalisti che, sette in tutto, anche assiepandosi, non sarebbero riusciti ad occupare tutto il salotto. Li vide alzarsi di scatto dalle due fila di sedie pieghevoli disposte davanti ad un leggio dal lato opposto della vetrata. Vide i loro occhi prima accendersi confusi, abbagliati, poi prendere coscienza di chi era appena entrato nella stanza e quindi sporgersi, ruzzolare in avanti per incontrare il suo sguardo, nel tentativo di carpire qualche cosa, una briciola, il segreto del suo irripetibile successo. Già iniziavano a tempestarlo di domande, dopo averlo accolto con un applauso scrosciante: Dove ha tratto l’Ispirazione? Chi l’ha aiutata nel processo? Aveva davanti agli occhi un lettore ideale? Ha usato riferimenti intertestuali o la tecnica del rampino? Se ne andrà finalmente in pensione dopo questo romanzo? chiese, impertinente, una giornalista parecchio paffuta, dalle labbra arricciate, compiaciuta della sua stessa insinuazione viperina. Il sig. autore illustrissimo Milo Penna non si curò di rispondere a tutti, si limitò ad acquietarli, accarezzandoli con baci volanti e promesse di “le risponderò dopo, promesso”, un Messia geloso del proprio Vangelo perché lo voleva divulgare al momento giusto, all’apice della sua Ascensione. Mentre, con passo lento, calcolato, si posizionava dietro al leggio e la sua folla, così nella sua testa la definiva, prendeva febbrilmente posto, Dominique lo raggiunse giusto in tempo mentre si schiariva la voce, si inforcava gli occhiali, leggermente sbilenchi, e prendeva tra le mani tremolanti gli appunti di quello che avrebbe dovuto essere il canovaccio del suo discorso. L’aria nella stanza era percorsa da istantanei spasmi di corrente, che si insinuavano tra le articolazioni degli astanti, pollici che pulsavano sopra i pulsanti delle penne, ma era anche attraversata dagli odori del buffet, disposto su un minuscolo banchetto, in un angolino abbandonato, tanto invitante quanto evitato, eppure nulla in quei rustici di wurstel, frittatine di pasta o quiche di zucchine sembrava avvelenato o andato a male. In una sinfonia di schiocchi e pagine voltate, sedie raddrizzate e colpi di tosse, l’orchestra era pronta per pendere dalle labbra del maestro. Il sig. autore illustrissimo Milo Penna si schiarì per l’ultima volta la voce, mentre la bocca, fuori controllo, gli si distendeva serafica in un sorriso di trionfo, anche mentre spiegava sul leggio i fogli dei suoi appunti. Quello era il suo momento. Anni e anni di sacrifici lo avevano portato sin lì, l’acme della sua carriera da scrittore, l’Iliade del suo Omero, la Gerusalemme Liberata del suo Tasso, la Persuasione e la Retorica del suo Michelstaedter. Nulla poteva andare storto. Diede una sbirciatina sopra gli occhiali. Qualcuno si copriva la bocca con le lacrime agli occhi, già visibilmente commosso, pensava lui; una mosca cercava un atterraggio comodo sulla testa della giornalista grassa ma, alla fine, aveva adocchiato il buffet; sentiva la presenza rigida di Dominique alle sue spalle, in genere pronto a sopperire ai suoi vuoti di memoria. Ma stavolta no. Stava aspettando il momento giusto per iniziare. Ancora un altro po’. Nell’estremità a sinistra della stanza, anzi fuori nel cortile, visibili dalla vetrata, due del catering stavano fumando una sigaretta, si sentivano mugugnare su qualcosa che il sig. autore illustrissimo Milo Penna non riusciva a capire, qualcosa che era una “manfrina”, “che non ne valeva la pena”, “che non erano stati” qualcosa “abbastanza”. Un addetto del catering schiaffeggiò sulle mani uno dei giornalisti che aveva, pazzo, tentato di agguantare uno dei mini-wurstel avvolti nella pasta sfoglia. Ma ecco, tutto tace, nessuno, da tempo, fiata. E così iniziò: …
Continua…
Davide Aruta