
Una pila diroccata di vecchi libri, carte e cartacce sparse come coriandoli su tutto il suo scrittoio. Si svegliò così, come tutte le mattine, lui, il sig. Milo Penna, che a malapena era riuscito a chiudere occhio durante la notte, con tutti quei friccichi improvvisi lungo la schiena e quegli spasimi incontrollabili tra le dita delle mani, a causa di un’emozione troppo grande per permettergli di dormire, per quello che avrebbe dovuto fare l’indomani, cioè stamattina, dico, perché il terrore di dimenticare il discorso o, infinitamente peggio, dire la parola sbagliata, o dirne pure troppe o troppo poche o di contraddirsi proprio non gli faceva prendere sonno e fantasticava di scenari agghiaccianti in cui finiva strangolato dai suoi stessi arzigogoli morfo-lessicali e schiattava asfissiato per terra in una pozza di sudore. A fatica, col peso biascicante dei suoi sessantasette anni suonati, si levò in piedi come una bandiera che sventolava ormai da troppo tempo, con la schiena irrimediabilmente ricurva che sembrava tollerare a malapena la testa che gli toccava di reggere e le braccia penzoloni lungo i fianchi, i capelli grigiastri mezzi madidi per la ressa onirica appena conclusa e gli occhi cisposi alla distratta ricerca dei suoi occhiali da vista. Al sig. Milo Penna ci volle qualche secondo per realizzare concretamente cosa lo aspettava oltre la porta della sua camera da letto e l’epifania lo ringiovanì, mese più, giorno meno, al punto da impiegare ben qualche secondo mancante per raggiungere la stanza da bagno a pochi passi dal suo letto: davvero una bella scarica di adrenalina. La sua toelettatura era un’operazione invidiabile: nulla andava secondo i piani e lui, il sig. Milo Penna, sembrava esserne splendidamente felice. Infiniti colpi di spazzola non riuscivano ad avere ragione di una radura screziata di grigio che sembrava possedere vita propria, opponendosi con rarissimi svolazzi e ciuffi ribelli che lo facevano apparire come uno squallido professore in pensione; occhi costantemente vitrei nonostante cascate d’acqua di lavandino inondassero ogni singolo ciglio, per non parlare poi dei suoi canini giallastri e mefitici… ma a lui, il sig. Milo Penna, lo specchietto appeso, pericolante, a un chiodo sopra al lavandino, perennemente appannato, quella mattina lo lasciò andar via a colazione allegro e soddisfatto, uno sposo pronto per l’altare, un fabbro pronto per il suo destino. Il sig. Milo Penna, a dispetto delle apparenze, sapeva chi stava per diventare: un rinomatissimo romanziere, un caso internazionale, e non poteva permettersi di farsi cogliere in déshabillé! Come un macinino appena uscito dall’autolavaggio il sig. Milo Penna si avviò al piano di sotto per la colazione. Come ogni mattina, a svegliarlo fu la voce, rispettosa ma inflessibile, del suo maggiordomo, Dominique, che volente o nolente, ma quasi sempre nolente, si ritrovava sotto una cascata incessante di insulti quando interrompeva il sonno ristoratore del padrone, dopo ore e ore passate davanti alla macchina da scrivere a racimolare qualche idea, geniale e irripetibile, per il suo imminentissimo successo letterario, specialmente quando il suddetto sogno includeva Muse dai pepli cadenti e dai costumi semitrasparenti. Ma Dominique pazientava. Aveva pazientato per ventitré anni, perché smettere proprio adesso, il giorno di lancio del primissimo romanzo, forse ultimissimo romanzo, del grande sig. Milo Penna? Dominique lo aspettava in fondo alle scale e lo percepì, poi lo sentì, poi tremò, poi lo vide scendere le scale con un entusiasmo che soltanto altre cinquantasette volte gli aveva visto nelle ossa, ovvero in occasione del parto dei bestseller, pensati ma mai pubblicati, dalla brillante mente del sig. autore Milo Penna. Aveva una scintilla negli occhi che ormai conosceva benissimo, una lucerna accesa in fondo al mare che di solito guizzava per qualche ora, questione di giorni al massimo, ma stavolta si vedeva che era diverso, che qualcosa era andato storto: questa volta l’avevano pubblicato per davvero. Buongiorno, signore, recitò ossequioso lui. Cosa ci fai ancora lì impalato? Perché non siamo ancora in cucina con un bel piatto di pancetta e uova strapazzate? Lo sai che mi piace rifocillarmi sostanziosamente prima di un grande evento come quello di oggi. Su, muoviti! tuonò, invece, lui, comprensibilmente nervoso ed eccitato. Come se anche i suoi timpani si fossero abituati a quella partitura che abitualmente il sig. autore Milo Penna scandiva con impeccabile precisione, Dominique piegò il collo, impercettibilmente, socchiudendo al contempo gli occhi in segno di sincere scuse e lo scortò verso la cucina, una stanza più piccola rispetto al grande soggiorno o alla camera da pranzo, dove, abitualmente, il sig. autore Milo Penna consumava soltanto il petit-déjeuner, lo spuntino delle dodici e venticinque, lo spuntino delle quattordici e quindici, e le escursioni notturne delle ventidue e quarantacinque, quest’ultime raramente sorvegliate. Ebbene sì, perché l’altro abitante della casetta color crema a due piani che il sig. autore Milo Penna aveva ereditato dai suoi genitori, ai confini di Cocomaro di Focomorto, a pochi chilometri dal fiume che lo separava da Cocomaro di Cona, oltre a Dominique che occupava un angusto stanzino di fronte alla porta d’ingresso, nel sottoscala, era Elizabeth, la bionda cuoca in carne assunta insieme al maggiordomo, e lei appendeva il suo grembiule, immacolato quando bussava alla porta d’ingresso ma screziato di ogni sorta di crema e concentrato quando se ne liberava, alle ventidue e trenta spaccate, lo spettrale orologio a pendolo in legno di noce di fianco allo stanzino di Dominique poteva ben testimoniarlo. Quando il sig. autore Milo Penna entrò in cucina, si sentì stordito per un secondo mentre una zaffata intensa di cipolle e salvia e patate lesse gli risaliva su per le narici a confondergli il senso dell’orientamento, non che fosse difficile vederlo sbandare ora a destra ora a sinistra confondendo l’alba col tramonto, e fu solo grazie a Dominique, ritto alle sue spalle a fargli da cariatide, se riuscì a sedersi dignitosamente all’isola al centro della stanza. Era tutto perfettamente apparecchiato, il Corriere della Sera piegato in quattro, da cui si poteva ancora sbirciare il titolo in prima pagina (Augu.. Lady.. e al principe Ca..),il piatto di uova strapazzate da un lato, pancetta croccante piegata a mezzaluna dall’altro, perché il sig. autore Milo Penna sapeva che avrebbe avuto bisogno di energie in una giornata così impegnativa come quella che si prospettava davanti a lui, fuori da quella stanzetta soffocata dai fumi delle diavolerie culinarie di Elizabeth. Ma, nondimeno, ci fu un errore e lui lo notò: c’era la forchetta ma non c’era il coltello. Dominique se ne accorse appena lasciato tonfare il padrone sulla sedia scricchiolante ma non ebbe neanche il tempo di avvicinarsi a Elizabeth, immersa testa e corpo nei suoi sughi, che il sig. autore Milo Penna proruppe sentenzioso. Ebbene, Elizabeth, il giorno in cui le foglie autunnali non cadranno dall’albero in agonia, il giorno in cui il Sole smetterà di riscaldare coi suoi rai noi mortali, il giorno in cui un uomo mangerà uova e bacon senza coltello ma col solo ausilio della sua forchetta, ti dico: io ti toglierò per sposa! Soltanto il sig. autore Milo Penna fece seguire le sue stesse parole da una fragorosa risata, come se avesse riprodotto la stessa battuta che all’epoca fece sganasciare anche Democrito. In realtà non era questa la prassi a cui la servitù era abituata nei suoi giorni peggiori, in quei momenti terribili che lui amava definire i suoi “processi creativi”, che potevano avere luogo letteralmente ovunque: in bagno sulla tazza, in bagno sotto la doccia, a letto appena prima di prendere sonno, a tavola poco dopo aver finito il secondo, sull’uscio di casa prima di uscire per una passeggiata, e lui pretendeva di essere assecondato, richiedeva sull’unghia carta e penna per afferrare coi capelli la Musa che temeva gli potesse sfuggire dalla punta della lingua ma quando posava la stilografica sul suo taccuino, entrambi sacerdotalmente custoditi dal taschino interno della giacca di Dominique, era ormai troppo tardi e se ne stava lì, minuti interi con lo sguardo fluttuante a metà strada tra il foglio e il pavimento, come se l’Ispirazione si fosse buttata a terra per lo spavento della sua faccia stralunata. Entrambi i suoi dipendenti tremavano, quando si muovevano in casa del sig. autore Milo Penna, all’idea che quel giorno poteva essere uno di quei giorni: urla e bofonchî li inseguivano in ogni stanza, la minima imperfezione o dimenticanza veniva ingrandita al vetriolo fino a prendere le dimensioni di un tradimento di Stato, carte e cartacce si accumulavano, onda su onda, per tutta la casa fino a minacciare di affogarli tutti. Non un attimo di riposo, non un minuto di silenzio, non una parola gentile durante uno di quei giorni. Una volta, quando era stata troppo presa dalle mille commissioni di casa, Elizabeth si dimenticò, essendo lei non solo cuoca ma una colf proteiforme che poteva trasformarsi in idraulica, elettricista o chauffeuse all’occorrenza, mentre a Dominique, sgravato da ogni incombenza casalinga, era stato pattuito l’infelice compito invece di essere il cameriere personale, o come il padrone a volte lo chiamava, la Marionetta del sig. autore Milo Penna, di comprare le mele gialle che tanto, tanto piacevano al padrone, una mancanza imperdonabile perché proprio in quei minuti lui stava ultimando il suo capolavoro dell’ora di pranzo, un romanzo in quattro capitoli intitolato “Picciolo del mondo antico”, a cui avrebbe fatto rapidamente seguito all’ora di cena “Picciolo del mondo moderno”, due acclamati capolavori, editi in due sole copie e recensiti direttamente dal postino e dalla figlia dei vicini di casa a cui aveva forzatamente fatto dono proprio degli inestimabili autografi scritti su un fazzoletto di carta. Come pensi che possa ultimare, tuonò quel giorno, il mio geniale coup de théâtre, la mia catarsi emotiva e intellettuale senza aver assaporato prima l’oggetto del mio fare letterario? Come posso creare io senza Ispirazione? Dimmi, Elizabeth, l’ira funesta che io adesso dovrei riversare sulla pagina, vorresti forse che la scagliassi su di te? Elizabeth non interruppe le sue commissioni attorno al lavello e i suoi assalti armati di straccio e sgrassatore tra le zigrinature incrostate del piano cottura ma si limitò a mormorare delle scuse simulate, sapendo alla perfezione che dopo essere scoppiato in una tempesta di collera istantanea, la mente del sig. autore Milo Penna era già assorta in qualcosa di più grande dell’insignificante sbadataggine della cuoca Elizabeth, qualcosa su cui doveva assolutamente provare a scrivere un romanzo. In quei giorni era terribile come poteva essere terribile un bombo che si è inavvertitamente infilato nel soggiorno e continua a ronzare e ronzare rumorosamente, sbattendo e sbattendo contro i vetri sottili delle finestre, tormentando e tormentandosi senza fine alla ricerca di una via d’uscita con tutti quei thumb thumb e dang dang disperati, così disperati che l’unica parola che scappa tra i denti, un sospiro che vorreste fosse in grado di schiuderle di nuovo la strada verso casa è: Che deficiente. In fondo, però, come lo si poteva biasimare? Nessuno di noi è uno scrittore, dopotutto, e nessuno sa davvero cosa significa “avere l’Ispirazione”. Per il sig. autore Milo Penna non era certo un’impresa facile, considerando la sua veneranda età: un secondo era lì a pensare allo stile innovativo della prosa galileiana e l’altro gli colava un po’ di bavetta appiccicaticcia giù per la camicia, di cui non si curerebbe affatto se non intervenisse, ligio all’ordine, il fidato Dominique. Non gli era facile sapere di cosa scrivere, come scriverlo, a chi raccontarlo. Un secondo non lo sapeva, il secondo dopo neppure ma, preso dal terrore di affogare nel vuoto, già stava lì a scribacchiare qualcosa su della carta straccia, nome e cognome, i suoi amuleti, in attesa del colpo di genio, che raramente discendeva su di lui come un ictus mancato. Il terrore ipnotico della pagina bianca dinanzi a sé lo perseguitava, giorno e notte, non gli dava tregua, lo afferrava, lo ingoiava, lo digeriva e lo risputava fuori senza alcunché di guadagnato, non una briciola di soggetto, non una goccia d’inchiostro. Ecco perché quei giorni erano i peggiori. In quei giorni era terribile ma, quella mattina di luglio, con latente apprensione dei poveri Dominique e Elizabeth, il sig. autore illustrissimo Milo Penna era di un disarmante buon umore che non gli si vedeva addosso dai tempi del suo sestultimo fallimentare cimento letterario, una prosificazione, le malelingue direbbero plagio, i suoi dipendenti direbbero che l’ha letto da qualche parte e ci ha rimuginato sopra fino a distorcere la forma delle sillabe e l’ha poi riscritto a mano su d’un foglio volante, ingarbugliando una volta di più i suoni disciolti nella sua mente, de “La signorina Felicita ovvero la felicità” del Gozzano. La solitaria risata del padrone, una cacofonia di raucedine che si quietò come un accesso di tosse passeggero, fu lasciata cadere nell’indifferente silenzio dei due camerieri, tesi come corde di un violino che il loro padrone rischiava di far spezzare ad ogni intervento inusuale come quello. Nel modo brusco in cui Elizabeth abbandonò la parmigiana di patate ancora disassemblata nella pirofila di vetro e si diresse a posare il coltello al lato del padrone, impugnandolo forte fino a farsi diventare le nocche rosse, Dominique vide l’epilogo di un caso di cronaca nera: governante perde le staffe e ammazza un vanesio anziano signore con un coltello da tavola. Lavorava ormai, Dominique, con Elizabeth da ben ventitré anni. I primi giorni si aggiravano per la casa come biglie da flipper che non si scontravano mai, occhi perennemente imbarazzati, mani costantemente contratte dal contatto con qualsiasi oggetto o superficie di quel posto sconosciuto: non era casa loro, non era cosa loro, anche se era stato lo stesso sig. autore Milo Penna ad averli assunti proprio per preparare piatti e spostare specchi e pulire pavimenti in casa sua. Ma, come fossero stati erosi dallo stesso vento, quella simbiosi li aveva finalmente trovati affiatati, più di un ventennio dopo: uno sapeva cosa pensava l’altro anche solo guardando il tremolare della palpebra. Sapevano assaggiare l’elettricità che percorreva l’aria quando lui era di pessimo umore o la freschezza che aleggiava per le stanze quando lui, in ormai rarissimi accessi di spensieratezza, apriva tutti gli infissi e vagava dappertutto, su e giù, alla ricerca dell’Ispirazione. Grazie, cara mia Elizabeth, e che non accada mai più. Eccolo, pensò Dominique, il tuono dopo il fulmine, non si era mai del tutto sicuri se si fosse arrabbiato davvero o fosse tutta una pacchiana messinscena di giovialità. Elizabeth tornò, occhi chini, verso i fornelli, ma non prima di aver cercato lo sguardo di sostegno del maggiordomo, che trovò invece impalato sullo stipite della porta, tutto intento a decifrare il linguaggio del corpo del padrone mentre si avventava disordinatamente sulla colazione. Sai, mia cara, iniziò a dire mentre tentava di infilzare il bacon croccante con la forchetta, con non poca difficoltà, ti ho appena dato prova di uno degli espedienti retorici miei preferiti che, non a caso, ho ampiamente impiegato nel mio romanzo. Sai come si chiama? Il sig. autore Milo Penna non le diede tempo di rispondere e lei non si preoccupò di farlo. Ovvio che non potevi saperlo, mia cara, la tua scarsa istruzione liceale non te l’ha permesso. Si chiama adynaton, situazioni impossibili a verificarsi che danno un non so che di tragico, assurdo, irrimediabile alle cose che racconto. Quando dava lezioni di retorica, metrica e letteratura spicciola era sempre un buon segno. Dominique ne era compiaciuto, avrebbe reso le cose più semplici per il resto della giornata ma non lo diede a vedere: sia che fosse di buonumore, sia che si sentisse morire dentro, lui non lo dava a vedere. Serrava tutto quello che gli passava per la testa dietro le palle degli occhi, a volte si vedevano ombre scure che facevano avanti e indietro misurando la distanza da un ciglio all’altro, fantasmi di pensieri troppo complessi. Ma era questo il suo mestiere, il silenzio incondizionato. Lei, invece, lui lo sapeva benissimo, era molto più impulsiva. E questo non va affatto bene, non oggi, pensò Dominique. Elizabeth sparecchiò con celerità il piano levigato dell’isola, coltello intonso alla mano, mentre sentiva i loro passi, all’unisono, incamminarsi verso la porta d’ingresso. Dominique, hai tutto quello che ci serve? chiese il sig. autore Milo Penna mentre si infilava impacciato un soprabito di feltro logoro, non spazzolato, il suo preferito. Certo signore. Il tour è stato scandito da lei in persona nei più piccoli particolari. Inizieremo con… Taci! Non ti ho chiesto di farmi una sinossi, che sarebbe sicuramente molto meno avvincente ed epica di come l’ho programmata: una vera e propria anabasi verso la mia definitiva incoronazione di poeta laureato del XX secolo, un premio che aspetto ormai da molti, molti anni. Oggi finalmente tutto quello che ho sempre sognato…diventerà realtà. Dominique percepiva un’aura di autentica eccitazione promanare dai contorni curvi e diseguali del padrone. Era davvero radioso come, forse, non l’aveva mai visto in ventitré anni di onorato, faticoso servizio. Il sig. autore Milo Penna si voltò per raccogliere la bombetta bucata dall’appendiabiti e in quel rapidissimo volteggio, Dominique avrebbe giurato di aver scorto riflessi perlacei, goccioline glitterate agli angoli degli occhi del padrone. Orsù, che fai ancora lì come uno stoccafisso? Si infilò, nel suo taschino stavolta, il suo taccuino e una biro senza tappuccio e aprì la porta. Marciò verso l’auto come un ras d’altri tempi, il suo personalissimo trionfo in città. Prese posto sul retro della Panda di Dominique mentre lui, scattante e coi nervi a fior di pelle, provvedeva a tutte quelle inezie e materialismi che il padrone trascurava: le trentasette copie del romanzo da distribuire, bottigline d’acqua in caso di affaticamento da sproloqui a cui il sig. autore Milo Penna era geneticamente propenso, e altre incombenze del genere. Il padrone iniziava a scalciare, prendendo uno sguardo severo, dritto verso di sé, un bambino che stava per dare in escandescenze. Dominique! tuonò. Stai giocando a un gioco molto pericoloso. Perché sei così lento? Abbiamo tante conferenze a cui attendere, tanti fedeli da soddisfare, tanti riflettori sotto cui stare. Sembrò raddolcirsi. E non possiamo assolutamente permetterci di fare tardi! Eruttò. Dominique caricò l’ultimo scatolone di libri nel bagagliaio e saltò col fiato sospeso in macchina. Non poteva contrariarlo, non quel giorno. Non ci sono mezze misure con te: o mi dimentico quasi che tu sei qui in casa con me o sei così ingombrante da farmi urlare di collera, lo rimproverò il sig. autore Milo Penna. Un pensiero su Dominique gli strisciò su per la testa ma non seppe dargli forma. Dunque, qual è la nostra prima tappa? chiese ingenuamente. La Casa del Libro, signore. Cosa stai aspettando allora? Perché non siamo già lì?
Continua…
Davide Aruta