La storia dell’alpinismo, in breve – ma non troppo breve

14.07.2021

Sono passati 235 anni dalla nascita ufficiale dell’alpinismo, convenzionalmente posta l’8 agosto 1786, quando venne asceso per la prima volta il Monte Bianco. Oggi come allora bisogna partire da una domanda: perché si sale in montagna?

Sono passati 235 anni dalla nascita ufficiale dell’alpinismo, convenzionalmente posta l’8 agosto 1786, quando venne asceso per la prima volta il Monte Bianco, data simbolica che non nasconde il fatto che per millenni l’essere umano si sia spinto in montagna.

Oggi come allora bisogna partire da una domanda: perché si sale in montagna?La storia ci insegna che l’alpinismo e le scalate hanno avuto significati diversi, spesso opposti, e che una risposta alla domanda è possibile se si guarda al fenomeno in chiave diacronica, partendo dall’inizio.

Dalla paura per la montagna alla rivoluzione culturale settecentescaIn Europa, il nostro campo di indagine, inizialmente l’atteggiamento dell’essere umano di pianura è l’orofobia: con l’eccezione dei popoli alpini, della montagna si ha paura, le regioni più alte sono le più ostili. La montagna come luogo inadatto e pericoloso è un paradigma tutt’ora impresso nell’immaginario collettivo (ancora oggi le leggi statali parlano di “ambienti ostili”), ma per millenni questa paura ha avuto un significato ulteriore. La montagna rappresentava un luogo proibito, dal quale tenersi alla larga, perché pericoloso, certo, ma anche mistico, in quanto luogo in cui era possibile che si manifestasse il sacro, nella sua connotazione più assoluta. L’epifania per l’uomo antico e medievale, intesa quindi non in senso strettamente cristiano, è un ‘esperienza accecante, che mutila, azzoppa e a volte fulmina, uccidendo, l’uomo che tocca o entra in contatto col divino – nella tradizione religiosa europea e mediorientale questo è un topos ricorrente, da Anchise a Giacobbe, da Paolo di Tarso a Uzzà.

La rivoluzione culturale settecentesca spezza per sempre il divieto di andare in montagna, poiché nell’arco di pochi decenni cambia il modo di guardare il mondo verticale.

Già con il primissimo romanticismo compare una nuova forma di paesaggio, che prima semplicemente non esisteva, fatto di vette, creste e guglie. Il paesaggio non è infatti un dato che esiste di per sé, ma un complesso concetto culturale, che si forma nella percezione dell’osservatore: negli occhi di chi viveva nelle valli non esisteva il paesaggio montano, è la cultura dei romantici che rende riconoscibili le linee, le forme e vi riconduce un significato estetico.

Non vi è mai stata prima tanta attenzione alla “bellezza” della montagna, le vette infatti raramente erano rappresentate e, se lo erano, stavano ai margini della tela. Il sentimento romantico trova invece in questi luoghi stupore e meraviglia, e i rilievi, un tempo ignorati, sono i protagonisti della natura viva e terribile dello Sturm und Drang. Gli uomini del Settecento cercano disperatamente l’esperienza sublime, quel dilettevole orrore che sconvolge i sensi e restaura, in parte, la dignità dell’essere umano, che spiazzato dalla rivoluzione copernicana, si consola in quanto unico essere capace di guardare un mondo non più a sua misura, ma sproporzionato e terrificante, e provarne comunque piacere.

Il primissimo alpinismo, nel passare dall’osservazione all’ingresso nel paesaggio, non è però connotato in modo esplicito da questa forma di ricerca, ma piuttosto dall’altra battaglia anti-dogmatica del secolo, l’Illuminismo. Arriviamo quindi alla prima ascensione del Monte Bianco, anno 1786.

Balmat e Paccard, un cacciatore e un medico savoiardi (al tempo italiani), si spingono in cima al Monte Bianco perché convinti a ciò dallo scienziato ginevrino De Saussure, il quale sarà poi accompagnato dallo stesso Balmat in cima a sua volta, e per più di un secolo verrà considerato il primo a giungere in vetta.

Il significato della scalata è stratificato, ed è il motivo per cui essa ha un simile ruolo nella storia dell’alpinismo, nonostante in montagna la gente delle valli salisse da sempre.

Balmat e Paccard, e ancora di più De Saussure, non scalano per cacciare o perché mossi da passione mistica, ma per compiere rilevamenti scientifici, armati di barometri e termometri. Misurano la pressione atmosferica e la temperatura, e tentano un primo, approssimativo, calcolo dell’altezza.

Va ricordato poi che durante le ricognizioni prima dell’impresa, Balmat, essendosi perso, dovette passare una notte sul ghiacciaio, esperienza considerata al tempo fatale e sacrilega insieme.

L’immagine che ne esce è quella di un’avventura profondamente laica, costruita ed intrapresa da un lato per superare le inibizioni, le credenze, le superstizioni che facevano della montagna il “mondo delle tenebre”, dove non era possibile sopravvivere alla notte; dall’altro lato per trovare un punto di osservazione scientifica privilegiato, dal quale investigare meglio i segreti della Terra. È dall’analisi delle montagne che si giungerà alla consapevolezza che il tempo geologico è più profondo di quanto racconti la Bibbia, e che la Terra si è modificata tantissimo nel corso della sua esistenza.

Questo atteggiamento laico e di rottura colora di modernità l’atto in sé, la scalata, il bivacco sul ghiacciaio, l’impresa alpinistica. Da questo momento l’alpinismo rappresenterà sempre uno dei bracci operativi della ricerca scientifica.

Dal playgroud of Europe alla Prima Guerra MondialeL’impostazione scientifico-razionalista con cui nasce l’alpinismo non rinnega l’afflato mistico proprio dei romantici, e non c’è dubbio che gli uomini che per primi si inerpicarono sulle Alpi provassero emozioni fortissime, ma non erano questi gli argomenti trattati nei report del tempo.

Il binomio alpinismo-ricerca scientifica viene incrinato la prima volta dal nuovo approccio inglese alla materia: dove l’uomo antico vede superstizioni e l’uomo moderno cerca risposte scientifiche, gli inglesi vanno a fare sport. La società anglosassone è ricca, imperialista, e si inventa un nuovo stile di vita, l’alpinismo come gioco spensierato, adatto ad un popolo avventuroso ed eccentrico. Le Alpi diventano il playground of Europe, dove i giovani borghesi britannici, iscritti all’Alpine Club, giocano e si mettono alla prova. Non durerà a lungo.

Nel 1863, sei anni dopo la fondazione dell’Alpine Club, Quintino Sella, scienziato e politico (sarà più volte ministro del Regno d’Italia) fonda il CAI, Club Alpino Italiano. In una manciata di anni cambiano gli schemi e cambia il senso di andare in montagna. Sella infatti nel fondare il CAI ha in mente un progetto diverso da quello inglese, maggiormente impostato su indirizzi scientifici e formativi. L’alpinismo per il politico piemontese è innanzitutto un metodo pedagogico, adatto a trasmettere alla futura classe dirigente italiana l’arte del rischio calcolato: i giovani alto-borghesi del neonato regno, che dovranno fondare dal nulla l’imprenditoria industriale in un paese completamente rurale, devono prima imparare a gestire le vertigini, ad affrontare gli strapiombi, a fare i nodi per non cadere.

A ciò si accompagna il manifesto risorgimentale del CAI, che diventa la risposta degli Italiani ai restanti popoli europei, facendosi promotore della riconquista dei monti della penisola. L’atto di nascita stesso del Club racchiude tutti questi elementi, poiché Sella decide di scalare il Monviso, mai salito da una cordata italiana, come mossa propagandistica. La cordata è eterogenea, ne fa parte anche un deputato calabrese, a simboleggiare l’Unità d’Italia – motivo ricorrente del CAI ottocentesco, si pensi che la sezione di Napoli verrà fondata prima di quelle di Roma e Milano. Nonostante fosse la montagna più importante del Piemonte, e una delle più spettacolari delle Alpi, il Re di Pietra non era la prima scelta, perché già salito da una cordata anglo-francese nel 1861. L’obiettivo di Sella era il Cervino, inviolato e magnifico, ma l’unica guida italiana ritenuta capace di andare in vetta, Jean-Antoine Carrel, era già d’accordo col giovane inglese Whymper. Se dunque il 63 è l’anno del Monviso e del CAI, è il 1865, data di ascensione del Cervino, l’anno di svolta dell’alpinismo.

Benché Whymper e Carrel si fossero accordati e avessero tentato a più riprese la conquista della vetta, essi si ritrovarono rivali nel momento più importante: Carrel partì da Cervinia, senza Whymper, alla guida di una cordata tutta italiana, e l’alpinista inglese, tornato a Zermatt, tentò l’impresa dal versante svizzero, insieme a tre connazionali e tre guide.

Succederanno tre cose, tre passaggi fondamentali che modificheranno per sempre la storia dell’alpinismo. Innanzitutto finisce l’epoca della scienza e dello sport e inizia il periodo delle sfide fra nazioni a chi conquista le vette più importanti. Sul Cervino, fra italiani e inglesi, avranno la meglio i secondi.

L’altro elemento di novità è il fatto tragico, perché durante la discesa quattro uomini della cordata vittoriosa scivolano e precipitano, mentre i tre sopravvissuti, tra cui Whymper, li guardano sconvolti cadere per oltre mille metri.

Infine, a margine dell’impresa compare un ingrediente che non abbandonerà più il mondo dell’alpinismo: le polemiche e la grande eco nell’opinione pubblica intorno all’evento.

Il sogno britannico del playground è finito, sulle montagne non vanno più giovani avventurosi accumunati dagli stessi valori, ma esse diventano campo di battaglia e non di gioco per le nazioni, in una sfida che non ha più niente di sportivo. Le cordate hanno una bandiera, la narrazione si fa epica e il gergo si militarizza. Non si parla più di ascensioni ma di assalto e conquista della vetta; come in guerra, è previsto un uso importante di tecnologia, e si iniziano a costruire le scale e a chiodare le pareti. Emblematica di questo mutamento ideologico sarà la salita al Dente del Gigante, tentata prima da Mummery in puro stile alpino, e abbandonata a poche centinaia di metri dalla vetta perché irraggiungibile by fair means. La vetta sarà conquistata dalle guide italiane (tra le quali il Marquignaz compagno di Carrel nel ’65) a botte di carpenteria, chiodando la parete e intagliando scalini per diversi giorni. L’etica sportiva di Mummery, di Preuss, Piaz e pochi altri, che si rifiutano di usare corde fisse e scale per arrivare in cima ad ogni costo, sarà recuperata solo un secolo dopo, negli anni ’60 e ’70 del Novecento.

Nel frattempo, il nazionalismo imperante in Europa a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento trasforma le montagne in quello che geneticamente non possono essere: ponti fra i popoli, intrinsecamente multi-etniche, le montagne diventano invece terre sacre, appartenenti ad una sola nazione, uniforme per classe, religione, lingua. In questo contesto, i club alpini accentuano ulteriormente la loro connotazione nazionale e irredentista; dell’alpinismo se ne scorgono le potenzialità belliche, fino a quando, nel 1914, la battaglia delle vette da metafora si trasforma in realtà.

Forse la nota più bella ce la regalano proprio Whymper e Carrel, i primi “avversari” della storia dell’alpinismo, che dopo il Cervino si ritrovano amici e negli anni compiranno insieme imprese leggendarie in Sudamerica, salendo per primi sulle più poetiche vette andine.

Il fascismo, il secondo dopoguerra e l’assassinio dell’impossibileFinita la Grande Guerra, la montagna ha assunto ormai il significato di altare del sacrificio della Patria. Sulle Alpi sono state combattute alcune delle battaglie più feroci e simboliche, esse hanno rappresentato per l’Italia (e non solo) il confine da difendere metro per metro dai nemici, e dopo essere state il campo di gioco e il campo di battaglia della borghesia europea, ora sono per tutti il cimitero dei giovani patrioti, appartenenti soprattutto alle masse popolari. La politica, anche prima del fascismo, usa il sacrificio in montagna come concetto quasi religioso per giustificare i morti e gli “scemi di guerra”, i soldati mutilati, quelli gassati, trasformandoli in martiri. Il dolore collettivo, popolare, andava ricondotto e incanalato in qualcosa di epico e non strettamente alto-borghese, e la montagna, così sacralizzata, per qualche tempo non vedrà più alpinisti.

Durante il Ventennio l’alpinismo torna protagonista, nell’inedita veste di “mezzo di elevazione spirituale della razza” – così si esprime Manaresi, ufficiale degli Alpini e Presidente del CAI (nel frattempo rinominato Centro e non più Club). È l’epoca del Sesto Grado, e il nuovo prototipo del socio CAI, piccolo-borghese e sostenitore del regime, ammira le imprese di Comici, Cassin e gli altri grandi alpinisti degli anni ’30. L’alpinismo che per Sella faceva scuola ai giovani imprenditori, per il regime è un addestramento all’ardimento e all’italianità dell’uomo-soldato fascista; i grandi arrampicatori di quegli anni sono eroi e simboli del primato nazionale nella retorica del tempo, dalla quale loro stessi si emancipano solo fino ad un certo punto.

Il linguaggio e l’epica marziale accompagneranno l’alpinismo anche nel secondo dopoguerra, in particolare con lo sviluppo dell’himalaysmo, e fra il 1953 e il 1964 si “assediano” e si “conquistano” i 14 Ottomila. Le spedizioni himalayane sono immense, contano di decine di uomini e centinaia di portatori, hanno tempi e costi notevoli, sono strettamente nazionali (ancora oggi il K2 viene chiamato “la montagna degli italiani”) e sono organizzate con metodo e disciplina militari – spesso proprio guidate da ex-militari.

Sul fronte domestico invece è egemonica l’arrampicata artificiale, e gli alpinisti, dimentichi del messaggio di Mummery, iniziano a compiere salite virtuosistiche “a goccia d’acqua”, arrampicandosi dritti per dritti su pareti impossibili appesi a scalette, staffe e ancoraggi.

Bonatti, vivendo l’alpinismo in modo unico, pone le basi ideologiche per la futura rivoluzione, e Messner, nel celebre articolo “L’assassinio dell’impossibile”, anno 1968, riporta alla luce il concetto di fair means: piantare chiodi in linea retta dalla base alla cima, secondo il mantra delle “direttissime”, non è alpinismo ma forzatura della realtà, che come tale deve avere dei margini di impossibilità.

È quindi nel contesto storico degli ultimi sgoccioli degli anni ’60 che nasce, o meglio resuscita l’arrampicata libera, rilanciata anche e soprattutto dai californiani dello Yosemite. L’arrampicata è libera in tutti i sensi, libera dai chiodi e dalle tecniche artificiali, ma soprattutto, come dirà bene Motti nell’accorato manifesto del Nuovo Mattino, libera dall’epica, dalla retorica del sacrificio e dell’impresa gloriosa. Bisogna cambiare metodo e prospettiva.

L’ambiente naturale non va sfidato e sottomesso, ma va studiato per entrarvi dentro; sulle pareti si torna a praticare sport, giocando e godendo l’esperienza alpinistica senza puntare necessariamente ad una “conquista”. Il free climber cerca dunque la confidenza con la roccia, non l’attacca; cerca la via lungo la parete, non la disegna artificialmente. E forse proprio perché non c’è l’obiettivo di superare a tutti i costi i limiti precedenti, di “assassinare l’impossibile”, quei limiti vengono superati, in modo naturale, e proprio Messner è il primo uomo a superare il VI grado, facendolo senza artificiale.

Si superano così i limiti anche dell’altissima quota, quando Buhl, Diemberger e Messner importano lo stile aplino in Himalaya, con un ritorno alle origini, fatto di spedizioni leggere, senza ossigeno e senza portatori. Le vette, in Europa come in Asia sono state già “conquistate”, si tratta di scoprire nuove strade per arrivarci, come Bonatti che nel ’65 sul Cervino compie un atto che è contemporaneamente storico ed avanguardistico. Sale su una delle montagne simbolo dell’alpinismo, a cento anni esatti dalla prima ascensione di cui si raccontava, ma, per primo, lo fa in inverno, in solitaria, aprendo una nuova via sulla parete nord. E così negli anni ’80 i grandi alpinisti polacchi, Kukuczka fra tutti, iniziano per primi a salire gli Ottomila in inverno, aprendo nuove vie.

Oggi e domaniCome capita spesso, anche la filosofia del Nuovo Mattino subisce un processo di banalizzazione e si tradisce velocemente. Riletta in modo riduttivo, l’arrampicata libera entra nel novero delle mode sessantottine, e se ne amplifica la componente estetica. Il free climber ricomincia ad obbedire ai dogmi – la bandana nei capelli, il jeans strappato; il gesto tecnico da movimento di emancipazione nella natura ridiventa virtuosismo agonistico; si comincia a praticare l’arrampicata sportiva, aprendo ad allenamenti indoor e competizioni specifiche.

Dall’altra parte del Mondo, gli Ottomila sono diventati mete turistiche, grazie allo sviluppo delle spedizioni commerciali: la comunità alpinistica non sopporterebbe più il modello degli anni ’50, col capo militare, investito dall’organo centrale (il CAI o chi per esso), che con “pugno di ferro” guida un para-esercito in cima all’Everest; vengono accettati invece i diktat del consumismo e la montagna viene mercificata, resa disponibile per il miglior offerente. Turisti da tutto il mondo pagano centinaia di migliaia di dollari per essere letteralmente accompagnati sulla montagna più alta del mondo, mentre guide e portatori imbastiscono scale, corde fisse e campi. Poi il materiale, a partire dalla bombole d’ossigeno finite, è abbandonato tra i ghiacci, nuova forma di pattumiera d’alta quota.

Come sempre, quando muore un tipo di alpinismo ne nascono di nuovi, e oggi le variabili sono estremamente numerose, prima fra tutte la questione ambientale. Essa pone interrogativi metodologici, perché molti percorsi sono diventati inagibili e molte tecniche, affinate in più di due secoli di alpinismo, sono oggi obsolete su montagne sempre più “tiepide”, nelle quali lo scioglimento del permafrost rende la roccia stessa instabile. Ma l’interrogativo più importante è di stampo etico: cosa sarà per noi la montagna?, un campo di battaglia, i cui pericoli sono ostacoli da sottomettere, anche e soprattutto con l’uso della tecnologia; oppure un campo di gioco, un playground, da scoprire e rispettare, in cui esercitare forme di equilibrio fra l’uomo e la natura?

di Eugenio Chemello, tratto da una lezione di Roberto Mantovani

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